di Raffaele Brancati, economista MET
Come pochi ricorderanno, l’Unione europea varò nel 2014 un progetto ambizioso per un nuovo “Rinascimento industriale”: parafrasando lo slogan adottato per i vincoli al bilancio degli stati nazionali, la strategia era stata definita “industrial compact”. A parte l’utilizzo della stessa espressione, le differenze con l’accordo fiscale sono evidenti. Così come è stato immaginato, il fiscal compact si muove all’interno di parametri definiti: prevede sanzioni specifiche, e spesso applicate, per i paesi inadempienti, oltre alla raccomandazione di inserimento di vincoli stringenti per la finanza pubblica nelle carte costituzionali dei singoli stati membri. In Italia ciò è avvenuto con una solerzia per molti versi sorprendente.
Nel caso dell’industrial compact, viceversa, si tratta di indirizzi, priorità e obiettivi destinati alla rinascita europea che non prevedono obblighi formali o sanzioni. Il target del 20% del valore aggiunto totale prodotto dal settore industriale è destinato a rimanere puramente indicativo per gran parte dei paesi dell’Unione. Escludendo la Germania, largamente al di sopra della quota richiesta per il valore aggiunto industriale sul totale con il 25%, secondo gli ultimi dati disponibili all’epoca, nel 2012 tutti i grandi paesi membri erano al di sotto del valore soglia: alcuni, come l’Italia, con indicatori prossimi all’obiettivo (18,4%), altri come Gran Bretagna e Francia, lontanissimi (rispettivamente 14,6% e 12,5%) . Cosa ne sia stato di quella strategia è valutabile da ciascuno seguendo il misero dibattito di politica economica e come quei valori sono richiamati.
Eppure, il problema della crescita e delle strategie per perseguirla è sempre più palese e stringente e la componente industriale della produzione rappresenta uno degli snodi fondamentali su cui impostare una concreta e necessaria azione.
Tre sono gli aspetti che si possono considerare essenziali e rappresentano le leve di una possibile politica industriale più incisiva; si tratta evidentemente di una strategia da condurre in parallelo all’avvio delle grandi riforme di sistema (istruzione, giustizia, sanità e altri aspetti del vivere civile) che rappresentano un obiettivo di lungo termine.
Le prime due leve, che appartengono a pieno titolo alla politica industriale, hanno come finalità la riduzione o la soluzione di criticità generali dello sviluppo economico o della società italiana: la selezione dei temi dovrebbe essere una fondamentale questione politica per guidare le strategie concrete a livello di governo regionale e nazionale. Per intendersi, si va dallo sviluppo delle attività legate alla green economy, alla mobilità urbana ed extraurbana, dalle scienze della vita ai beni culturali. Non è la scelta di settori “moderni”, o secondo la moda comunitaria, di smart specialization, ma l’individuazione di attività caratterizzate da forti esternalità positive, prevalentemente di natura sociale e legate alla qualità della vita.
Le leve per agire su queste tipologie di attività sono essenzialmente due: da un lato, il ricorso alla regolazione e all’indirizzo amministrativo (inteso come leva di sviluppo e non solo come controllo dei mercati) e, dall’altro, la gestione della domanda pubblica, spesso legata ad azioni fortemente innovative e di ricerca.
La terza leva di una politica industriale coerente con l’industrial compact è legata all’insieme degli strumenti destinati ad assecondare le componenti vitali del nostro sistema industriale e di sostenere processi spontanei che accelerano processi di crescita.
Nonostante tutto, nonostante le debolezze strutturali del nostro sistema industriale, nonostante il crollo della domanda interna e i suoi effetti dirompenti sulla produttività delle imprese, a partire dal 2010 la competitività internazionale dei beni prodotti in Italia ha avuto performance positive a dispetto delle ben note criticità (dal nanismo imprenditoriale alla bassa produttività, dal modesto impegno in ricerca alle carenze infrastrutturali e alla formazione del fattore umano). Performance certamente migliori rispetto a sistemi considerati più competitivi di quello italiano come nel caso di Francia e Gran Bretagna, paesi che hanno operato in condizioni di crisi interna meno difficili (nel caso della Gran Bretagna anche ricorrendo a svalutazione del cambio). Una possibile spiegazione del relativo successo ottenuto risiede in una dinamica interna al sistema che ha visto un numero crescente, e ormai molto rilevante, di soggetti impegnati in strategie dinamiche (in primo luogo innovazione ricerca e internazionalizzazione) evidentemente di successo. Tali fenomeni spontanei sono stati parzialmente sostenuti dalle politiche pubbliche e meritano una conferma e una intensificazione degli impegni secondo obiettivi strategici definiti.
I vincoli europei esistono e vanno rispettati, ma esistono anche gli spazi per perseguire una strategia ragionata, stabile e orientata al lungo periodo. E vanno sfruttati con determinazione.