“Ei fu 4.0”? È la domanda che mi è sorta leggendo “4.0. Successi & rimpianti nell’album dell’innovazione”, sul Corriere Economia del 5 dicembre scorso, a firma di Dario Di Vico. Successi: che il piano varato nel 2016 abbia funzionato è fuori discussione. Rimpianti: che si potesse e si dovesse fare di più per darvi continuità è agli atti. Parafrasando il Manzoni, “immobile” non è più Napoleone ma rischia di diventarlo la politica industriale.
Ciò premesso, prendo spunto da un passaggio dell’articolo in cui si sottolinea che il ricambio dei macchinari stimolato da Industria 4.0 si è accompagnato a intensi shock organizzativi, a radicali sviluppi di competenze, a importanti fabbisogni di data analitycs, determinando una new age del mercato del lavoro e dei profili professionali richiesti. È un fenomeno ancora in atto, che il direttore di Ucimu Alfredo Mariotti, camminando sul filo della provocazione, ha così commentato: “Una volta un ingegnere in azienda viveva per 40 anni di quello che sapeva; oggi già l’anno dopo l’assunzione deve fare della formazione se non vuol finire in fuorigioco”.
La metafora dell’offside e del calcio torna utile per sollevare questioni di vitale importanza per l’industria di casa nostra, che riguardano la qualità dei giocatori e più in generale del capitale umano, sia esso costituito dall’ingegnere o dall’informatico, dal manutentore o dal tornitore. Sotto la lente finiscono i percorsi formativi delle nuove generazioni, il lifelong learning, il ruolo della scuola e dell’università, il contributo delle imprese e della rappresentanza, e chi più ne ha più ne metta. Fronti troppo ampi per non correre il rischio della retorica di circostanza.
Mi concentro dunque su un punto: la gestione del vivaio, cioè dei giovani destinati ad entrare nel campo dell’industria. La tesi di fondo tende presuntuosamente all’assioma: il problema non è formare ma educare, verbo che in latino rappresenta la forma intensiva di educere (trarre fuori) e che, Treccani alla mano, significa:
- promuovere, con l’insegnamento e con l’esempio, lo sviluppo delle facoltà intellettuali e delle qualità morali di una persona, specie di giovane età;
- sviluppare le attitudini e le sensibilità: il cuore, la volontà, l’ingegno, la fantasia;
- esercitare il corpo alle fatiche, il braccio al lavoro, la mente alle pressioni.
Se si parla di vivaio, si deve parlare di contenuti disciplinari. Scuole superiori, ITS e università qualche pezzo di strada l’hanno fatto, tant’è vero che insegnamenti come lean production, intelligenza artificiale, supply chain management sono entrati di diritto nei piani formativi. Ma le discipline proposte in aula non bastano. Si deve andare più in là.
Qualche spunto, muovendo dalle definizioni della Treccani. “Promuovere con l’esempio”: AAA maestri cercasi! Negli enti formativi, nelle aziende, nei corpi intermedi, nella Pubblica amministrazione, nella politica, i riferimenti autorevoli latitano e il rischio di lasciare la leadership educativa alle parole degli influencer e ai meccanismi del web esiste (e forse è già più che un rischio). Per dirla terra terra: perché escludere che un giovane possa incontrare un maestro facendo un tirocinio o scrivendo la tesi di laurea?
“Sviluppare le attitudini e le sensibilità” ad essere ambiziosi, coraggiosi, tenaci, onesti; a riconoscere l’importanza degli errori, delle sconfitte, della meritocrazia. Un Nota bene sulla propensione e sulla tensione all’apprendimento: per “insegnare ad imparare” servono strumenti e format didattici sconosciuti fino a qualche anno fa, progettati per stimolare l’apertura al confronto, la curiosità intellettuale, il pensiero critico. Guardiamo al bicchiere mezzo pieno: tra vincoli burocratici e resistenze al cambiamento, qualcosa sta accadendo e le buone prassi sullo sviluppo di attitudini e di sensibilità individuali sono sempre più diffuse.
“Esercitare” al lavoro, l’intrapresa, la fatica, la self awareness, la cura dei dettagli, il rispetto delle scadenze e il presidio delle relazioni. Dalla grammatica si passa alla pratica “facendo fare esperienza”. Le opportunità non mancano. Simbolicamente, per rimanere nel contesto universitario: lo studente che fa l’Erasmus, il cameriere, il volontario della Croce Rossa matura esperienze di vita; il docente che si inventa il debating, il business game, la learning factory, la flipped classroom propone esperienze di vita.
In conclusione: sul vivaio bisogna investire, con lungimiranza e determinazione, mettendo sul tavolo quanto necessario, dai progetti ai quattrini. Analogo discorso si pone per la squadra titolare, per mantenerla in allenamento e per prepararla a nuove sfide. La responsabilità nello sviluppo del capitale umano coinvolge dunque l’intera filiera scuola-università-impresa e si estende ben oltre i suoi confini. Del resto, far finire in fuorigioco un ingegnere potrebbe essere un problema per l’impresa in cui lavora; farvi finire le risorse e il know how che alimentano la competitività del manifatturiero sarebbe una tragedia per l’intero Paese.
Proprio per questo torno a dove sono partito: urgono azioni di policy figlie dei tempi, di ampio respiro, rivolte alle tecnologie tanto quanto alle competenze. Che le si battezzi 4.0 bis oppure 5.0 poco importa.
(L’autore è componente del Comitato scientifico consultivo di Piccola Industria)