
La recente polemica sulla riforma degli aiuti di Stato e sulle diverse misure di erogazione tra i vari paesi membri apre, a mio avviso, un tema di ordine generale e sempre più centrale: l’importanza che le politiche europee assumeranno nella tutela e lo sviluppo dei sistemi industriali del continente. Se non vogliamo fare come i galli di manzoniana memoria, dobbiamo cominciare a maturare una visione mondiale del problema.
I nostri competitor più importanti sono la Cina e gli Stati Uniti, che hanno dinamiche decisionali e sistemi economici molti diversi fra loro, ma entrambi veloci ed efficienti. Tutti e due i paesi, inoltre, possiedono materie prime, investono su innovazione di processo e di prodotto, detengono tecnologie molto avanzate. Allo stesso tempo, però, sono responsabili di alti livelli di inquinamento.
Eppure, in un quadro così definito, è soltanto l’Europa, da cui deriva il 7,3% delle emissioni di anidride carbonica a livello globale (rispetto al 32,9% della Cina e al 12,5% degli Stati Uniti, secondo il CO2 emissions of all world countries, 2022 Report della Commissione europea), ad avere posto vincoli fortissimi alla propria industria con provvedimenti davvero difficili da comprendere, come la normativa sul packaging e sull’automotive rischiando di danneggiare con un timing di complessa esecuzione il proprio sistema economico.
Per anni chi ha legiferato a Bruxelles – e non possiamo più nascondercelo – ha guardato al sistema industriale non come ad un fattore di sviluppo e ricchezza bensì come un elemento negativo. Poi, complici forse la pandemia e la guerra russo-ucraina, la situazione è cambiata e la politica sembra essere più attenta all’ascolto.
Occorrono a questo punto azioni conseguenti. In primo luogo, la necessità di rafforzare le alleanze con le altre Confindustrie europee per portare avanti una forte azione di lobbing. Lo sa bene il nostro presidente Bonomi, che in questi mesi ha girato l’Europa per costruire una solida rete di alleanze a cui sarà necessario dare seguito con un documento comune di sintesi firmato da tutte le rappresentanze industriali europee in cui stabilire le linee prioritarie di intervento pur rispettando gli interessi che ciascun paese rappresenta.
In secondo luogo, occorre farsi ascoltare dalla politica, prima dai rappresentanti di ciascun paese e poi dal Parlamento tutto. Non possiamo più lasciare nelle mani di funzionari, spesso prevenuti, il destino dell’industria europea. È necessario far loro capire le profonde connessioni economiche che già esistono fra i sistemi industriali dei diversi paesi: ad esempio, norme che danneggiano il mercato del lusso non riguardano solo la Francia, ma hanno effetto anche sul sistema produttivo italiano, che è il loro primo fornitore. Oppure, prendere misure a sfavore dell’industria automobilistica non significa danneggiare soltanto la Germania, ma anche la sua filiera produttiva che l’Italia ben rappresenta. E gli esempi potrebbero continuare. Serve una visione d’insieme e occorre costruire alleanze per dare forza a questo progetto.
(Articolo pubblicato sul numero di febbraio dell’Imprenditore)