
Gli anni della globalizzazione hanno coinciso con l’emergere di un paradigma che ha visto le economie del Nord e del Sud del mondo muoversi insieme, legate sul piano produttivo attraverso catene di fornitura sempre più articolate a livello globale. In questo senso essi sono stati segnati dall’idea forte che fosse possibile garantire lo sviluppo mondiale fondamentalmente attraverso la leva del trade, gestita su base multilaterale. Questo principio ha implicato un aumento verticale dell’intensità del commercio mondiale per unità di output.
Ma quella che possiamo definire la Globalisation Age si è fondata su circostanze storiche irripetibili, che si sono progressivamente estinte per ragioni endogene, determinando un mutamento rilevante delle condizioni di contesto.
Il mutamento, il cui avvio precede lo stesso avvio della crisi del 2007, è legato: 1) all’irripetibilità del processo di offshoring che aveva catapultato sui mercati internazionali una quantità imponente di beni (intermedi e finali) prima prodotti all’interno dei soli paesi industriali; 2) al fisiologico rallentamento della vertiginosa crescita cinese, così come già avvenuto a suo tempo – sempre nell’ambito asiatico – per il Giappone e la Corea); 3) all’emergere di un nuovo orientamento generale verso scambi di tipo bilaterale (o addirittura di tentativi di riportare in patria produzioni precedentemente trasferite all’estero (backshoring); 4) al rientro del ritmo di crescita degli investimenti diretti esteri (ide) su un sentiero più contenuto dopo l’esplosione degli anni dell’offshoring (che implica una minore crescita della componente intra-firm degli scambi internazionali); 5) all’esigenza di un rientro degli eccessivi deficit commerciali accumulati per sostenere i consumi nei paesi avanzati fin da prima della crisi, non sostenibili nel lungo periodo.
Si può dunque dire che una serie di forti discontinuità dovute a fenomeni eccezionali (veri e propri one-off event), accumulatisi nel giro di pochi anni, avesse creato una situazione irripetibile in cui Nord e (una parte del) Sud del mondo erano entrati per la prima volta in comunicazione tra loro sul piano produttivo attraverso un aumento strutturale dei loro flussi di commercio incrociati.
Questa situazione ha lasciato ora il campo a “effetti di rimbalzo” opposti e simmetrici altrettanto rilevanti, che hanno determinato invece un ruolo più contenuto del commercio internazionale. Si tratta di un rallentamento che per le ragioni sopra richiamate sembra corrispondere a una “nuova normalità” (new normal): e che dunque appare destinato a persistere.
Naturalmente il grado di integrazione raggiunto dai mercati a livello globale è destinato comunque a rimanere alto, per la stessa intensità raggiunta dai legami che intercorrono tra i sistemi manifatturieri delle diverse economie e che hanno alimentato fin qui l’espandersi della domanda internazionale di input intermedi. Ma il modello di sviluppo centrato sulla globalizzazione delle catene del valore – incardinato sul multilateralismo e quindi su un ruolo strategico della domanda estera – sembra avere esaurito le sue possibilità di ulteriore diffusione, e tutte le aree industriali si trovano alle prese con l’esigenza di tornare a fare affidamento più che in passato sul loro mercato interno.
La logica secondo cui l’espansione della manifattura passa necessariamente attraverso il conseguimento di un vantaggio comparato ha guidato dunque l’ingresso su un percorso di sviluppo delle economie emergenti, ma si è affermata anche tra i paesi sviluppati, una quota rilevante dei quali ha affidato alla domanda estera il compito di sostenere la propria crescita.
È il caso della Germania e di altri paesi europei (tra cui l’Italia), che hanno perseguito un modello di espansione della manifattura incardinato sulla capacità di esportare, attraversando la stessa crisi sul salvagente delle importazioni altrui.
In generale, tuttavia, sia i “vecchi” paesi industriali che le “nuove” economie dell’Est hanno impostato le loro strategie di crescita su base sostanzialmente individuale: non disponendo alcuno di essi di una domanda interna di dimensioni imponenti, la strategia è stata quella di cercare la domanda altrove. Ne è derivata una visione della politica economica permanentemente orientata ad agire sui fattori di offerta, alla continua ricerca di una maggiore competitività. Ma – nella misura in cui le esportazioni complessive dei paesi europei sono per due terzi esportazioni intra-area – le politiche di contenimento della domanda interna sono risultate al tempo stesso politiche di contenimento della domanda interna europea (ovvero di una quota importante della stessa domanda estera dei singoli paesi).
Dentro questo mondo è arrivata la pandemia. Il cui arrivo – e il conseguente lockdown – hanno finito, anche simbolicamente, per far tramontare definitivamente l’idea secondo cui la “soluzione del problema produttivo” può consistere semplicemente nel comprare ogni volta quello che serve, di qualunque cosa si tratti, in qualche angolo del mondo. Il che implica a sua volta che la stessa distribuzione delle attività produttive a livello globale abbia bisogno di essere ripensata.
C’è in questo quadro un problema di (ri)costruzione di un’offerta nazionale che garantisca margini di autonomia in ambiti tanto strategici quanto di fatto abbandonati o quasi (basti pensare all’emergenza rappresentata dai dispositivi medici, la cui mancanza ha caratterizzato – e di fatto vincolato – tutta la prima fase di gestione della pandemia in molti paesi) e al tempo stesso di ricostituzione di una domanda interna largamente evaporata.
Contano molto in questa prospettiva le dimensioni assolute dei sistemi economici e le politiche che essi sono autonomamente capaci di formulare. È il terreno su cui si gioca il ruolo delle istituzioni europee, al tempo stesso chiamate ad agire a scala continentale e a disegnare un orizzonte comune di politica economica.