C’è da preoccuparsi, ma non tutto è perduto. Potrebbe essere sintetizzato così il messaggio conclusivo che l’economista Raghuram G. Rajan, governatore della Reserve Bank of India dal 2013 al 2016 e capo economista al Fondo monetario internazionale dal 2003 al 2006, ha affidato al pubblico attraverso la sua lectio magistralis “Protecting the future of a fragmenting world” in occasione della terza edizione del Premio Bancor.
Il riconoscimento è stato assegnato all’economista indiano, oggi docente all’Università di Chicago e fra le voci più autorevoli nel panorama mondiale, dall’Associazione Guido Carli, che nel 2022 ha istituto in collaborazione con Banca Ifis un premio per ricordare la figura del governatore della Banca d’Italia Guido Carli, nonché presidente di Confindustria dal ‘76 all’80. Un premio chiamato Bancor dal nome che Carli utilizzò a quei tempi come pseudonimo per firmare insieme con Eugenio Scalfari una nuova rubrica sull’Espresso. Si trattava di un esplicito omaggio al termine che “nel lontano 1944 Keynes diede alla moneta internazionale che, secondo le sue proposte di allora avrebbe dovuto costituire il futuro regolatore del sistema monetario”, come si leggeva nell’introduzione al primo numero della rubrica della rivista settimanale.
La cerimonia si è svolta a Roma il 19 novembre a Palazzo Brancaccio. Nell’introdurre i lavori Federico Carli, presidente dell’Associazione Guido Carli e nipote dell’economista, ha sottolineato la particolarità del nome di questo premio, “un tempo parola frusta” ma oggi simbolo e memoria di “un sogno monetario di progresso”.
Visione, idee e coraggio sono i concetti che hanno permeato sotto traccia anche la laudatio pronunciata da Ignazio Visco. Il governatore onorario della Banca d’Italia ha sottolineato l’autonomia di pensiero di Rajan, ricordando nello specifico l’edizione 2005 del celeberrimo simposio economico di Jackson Hole (l’appuntamento annuale che dal 1978 riunisce nella cittadina del Wyoming i principali banchieri centrali del mondo per fare il punto sulle politiche monetarie e le loro implicazioni, ndr), nel quale lo studioso indiano “presentò un contributo premonitore”, “evidenziando ben prima della crisi finanziaria del 2007-2008 i meccanismi distorti di un sistema finanziario quale quello degli Stati Uniti”.
Noto al grande pubblico per il saggio scritto insieme con Luigi Zingales “Salvate il capitalismo dai capitalisti”, Rajan è colui che a proposito della crisi dei mutui subprime ha spiegato che “la deregolamentazione e gli incentivi distorti ad accrescere l’indebitamento delle famiglie sono il risultato di scelte consapevoli da parte delle élites politiche ed economiche”, ha ricordato Visco nel suo intervento, per aggiungere, con riferimento ai temi di più stretta attualità, che “Rajan non ha cessato di indicare con enfasi la via delle riforme e delle potenzialità interne dello sviluppo economico e sociale come quella da preferire rispetto a una crescita trainata dalle esportazioni di manufatti prodotti a basso costo”.
Quali sono, dunque, i rischi maggiori ai quali andiamo incontro secondo la visione di Raghuram G.Rajan? Isolazionismo, guerra commerciale, risentimento verso gli immigrati, ovvero tutti fattori che portano a un mondo diviso, impaurito, nel quale peraltro le élite politiche non sembrano interessate a produrre una ricomposizione, quanto invece ad alimentare i timori a causa della loro incapacità di attuare le riforme necessarie.
Le cause – o gli elementi che comunque stanno contribuendo ad accelerare la frammentazione – sono diverse e non tutte recenti: parliamo della crisi finanziaria globale, la pandemia, le crescenti tensioni geopolitiche, il cambiamento climatico. In tutto questo l’elezione del presidente Trump alla guida degli Stati Uniti per i prossimi quattro anni è solo l’ultimo episodio e “molto dipenderà dagli advisor dei quali si circonderà e ai quali darà ascolto”, spiega Rajan. Preoccupa anche l’orientamento di alcuni paesi europei verso leadership illiberali e isolazioniste. Che cosa sta accadendo insomma?
Il professore dell’Università di Chicago si concentra su alcuni fenomeni a partire da una rabbia male indirizzata verso il commercio – “derivante dalla perdita di posti di lavoro da parte della classe media, soprattutto nel manifatturiero, ma anche nei servizi” – laddove invece il principale avversario dei lavori routinari è di gran lunga la tecnologia, che esplica i suoi effetti anche nei mercati emergenti.
Un secondo fenomeno è l’aumento della competizione globale nel mercato del lavoro: la posizione di vantaggio dei lavoratori dei paesi sviluppati dovuta a una migliore istruzione, migliori infrastrutture e maggiore capitale economico non assicura più maggiore produttività come un tempo. “Non è più così in un crescente numero di settori – sottolinea – ma le classi politiche invece di riconoscere che la competizione si è fatta più dura e che a volte gli altri paesi sono più produttivi, si lamentano di un playing field che non è più allo stesso livello”. Non se la passano meglio i paesi poveri, nei quali tradizionali fonti di sostentamento come l’agricoltura sono minacciate dal cambiamento climatico e dai conflitti. Questo alimenta nuove migrazioni, che vanno a incidere nel tessuto sociale dei paesi più ricchi. Nessun paese vuole essere travolto dagli stranieri, spiega Rajan, ma fette sempre più consistenti di popolazione vedono gli immigrati come una minaccia per il loro welfare, per lavori a bassa retribuzione, con affitti che salgono e una generale alterazione dei quartieri della working class.
Non va sottovalutata una certa nostalgia per il passato, dove a lavorare erano per lo più uomini di media istruzione, la stessa fetta di popolazione oggi “minacciata” non solo dalla tecnologia ma anche da una concorrenza femminile allora inesistente. “I paesi hanno bisogno di riforme che aiutino i lavoratori a recuperare il loro senso di confort. Come diceva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, ‘affinché tutto resti com’è, ogni cosa deve cambiare”.
La riqualificazione dei lavoratori in un contesto di cambiamento tecnologico senza dubbio richiederà tempo, fa notare l’economista, e i leader sono ben consapevoli che risultati si vedranno molto dopo il termine del loro mandato. Il fatto è che è difficile individuare governi di paesi ricchi che dopo la crisi finanziaria siano riusciti a infondere fiducia verso il futuro ai proprio cittadini e questo accade nonostante la disoccupazione nel mondo sviluppato si trovi ai minimi storici.
In ogni caso, puntare il dito contro qualcuno e continuare su questa china non porterà ad alcun risultato. Anzi, mettere barriere al commercio e invertire il trend dell’inclusione sociale non ci riporterà a un’epoca idilliaca basata sul merito. Nessuna politica isolazionista riporterà indietro le lancette dell’orologio, ma renderà tutti noi peggiori.
Raghuram G. Rajan crede nel ruolo che molti mercati emergenti possono giocare. Vogliono un mondo aperto e per questo motivo “abbiamo bisogno di creare piccole alleanze di paesi di buona volontà e di costruire connessioni fra loro che possano preservare la possibilità di una nuova integrazione”. Lungi dal prospettare soluzioni facili, Rajan crede nel ruolo del settore privato e di un cambiamento che sia guidato anche dal basso. Il principio della sussidiarietà può venirci in aiuto, laddove per esempio le amministrazioni locali possono aiutare le comunità ad adattarsi alla globalizzazione e al cambiamento tecnologico, preparando i lavoratori non tanto e non solo per i mestieri di oggi ma per quelli del futuro. È il cosiddetto “localismo inclusivo”, del quale Rajan parla nel suo libro di qualche anno fa intitolato “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati”. Insomma, il lavoro da fare è parecchio e richiede anche un ammodernamento delle istituzioni multilaterali, che oggi non riflettono più gli equilibri reali tra le nazioni. Una cosa è certa, facendo nostro “lo spirito di Bancor” dobbiamo resistere alla tentazione di credere che l’isolazionismo ci renderà di nuovo grandi.