
“La cosa che mi spaventa di più, da italiano, è che la guerra economica venga volta verso il nostro Paese. Le istituzioni non mi sembrano ancora attrezzate per far fronte a una crisi energetica e a una crisi alimentare. Converrebbe invece cominciare a pensare a piani di contingenza per preparare il paese a questi shock, anche a livello culturale”. Federico Petroni (nella foto in alto), consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della scuola promossa dalla rivista di geopolitica, è netto e franco. Cinque mesi di guerra non hanno prodotto cambiamenti tali da far sperare in una immediata tregua delle operazioni militari ma, anzi, hanno propagato gli effetti sociali ed economici anche in paesi lontani dai luoghi del conflitto.
“L’economia mondiale sta andando in frantumi – sottolinea – gli Stati Uniti sono prossimi alla recessione con conseguenze che osserveremo anche sui mercati finanziari. Mi sembra ci attenda un periodo molto difficile, che può essere equiparato alla rottura dell’economia mondiale che avvenne negli anni Settanta: guerre di vario tipo generarono uno shock petrolifero, che mandò in frantumi il sistema economico internazionale.
Come valuta, dunque, le contromisure prese sino ad oggi dall’Unione europea per rispondere all’attacco di Mosca contro l’Ucraina?
Per il momento, le sanzioni non hanno avuto l’effetto sperato, cioè quello di interrompere la guerra di Putin. La Russia ha dimostrato una capacità di resistenza superiore a quella che ci si aspettava. Inoltre le sanzioni hanno esposto la fragilità dell’Ue. Siamo arrivati a un tetto oltre il quale difficilmente si potrà andare senza minare la coesione interna. Putin lo sa e questo lo ha convinto della possibilità di rivoltare la guerra economica dell’Occidente contro l’Occidente stesso. Mi riferisco agli straordinari danni che il prossimo inverno un’interruzione delle forniture di gas, anche parziale, potrebbe provocare alla nostra economia, oltre a instabilità e disordine sociale.
Quali sono i fattori che giocano a vantaggio della Russia?
Sono diversi. Il primo è la volontà degli Stati Uniti di non combattere una guerra e di farlo sapere. L’indisponibilità dell’opinione pubblica americana a sopportare i costi di uno scontro diretto ha contribuito alla decisione russa di invadere l’Ucraina il 24 febbraio. La Russia inoltre ha una maggiore capacità di assorbire i costi economici, fintanto che Putin riesce a non portare al fronte lo zoccolo duro del suo popolo.
Il terzo motivo risiede nell’obiettivo di questa guerra. Putin l’ha lanciata contro il mondo a guida americana e i paesi non occidentali sembrano averlo capito molto bene. Tuttavia non isolano la Russia come era nelle speranze del presidente Biden. Per fare un esempio, Egitto, Indonesia, Brasile, India non si sono adeguati alla campagna internazionale contro Mosca e questo è un fenomeno che, pur non compensando le perdite economiche, fornisce a livello strategico una sponda interessante.
Oggi, quindi, non si può dire che la Russia sia un paese isolato.
Non completamente. Ovviamente nessuno ha intenzione di morire per la Russia, meno che mai la Cina, la potenza che le è più vicina. Allo stesso tempo, però, i paesi non occidentali non sono disposti ad adeguarsi alla linea statunitense.
In Europa invece la coesione interna, diceva, potrebbe essere a rischio.
Le sanzioni hanno posto il problema della riforma del metodo decisionale all’interno dell’Unione europea, questione che è destinata a caratterizzare i prossimi anni. È necessario superare il requisito dell’unanimità.
Quante “Europe” ci sono all’interno della Ue?
Almeno due. Esiste una faglia molto profonda che divide l’Europa occidentale da quella orientale, le cui radici affondano nella storia, nella cultura, nella percezione del momento storico e nella rappresentazione della Russia.
L’Europa occidentale, pur volendo vedere una vittoria sul campo dell’Ucraina, non ha intenzione di isolare completamente la Russia, non vuole umiliarla né sconfiggerla del tutto. Dall’altra parte, l’Europa orientale vorrebbe che questo fosse l’inizio di una campagna di isolamento della Russia per spingerla a rinunciare definitivamente alla pretesa di governare su altri popoli, di essere impero.
Per i paesi dell’Est si tratta di una questione storica, direi esistenziale; per noi occidentali no, perché sotto i russi non ci siamo mai stati. È una profonda differenza, che esisteva prima della guerra e che quest’ultima ha portato alla luce.
Ci sono altre “anime” dentro l’Ue?
C’è la Germania, che racchiude in sé queste contraddizioni e che, per la prima volta dal 1991, si trova in deficit commerciale e rischia di andare in profonda difficoltà economica. Sempre più autocentrata, si sta riarmando per guadagnare tempo ed esprimere una propria voce all’interno dell’Ue e della Nato. Infine, aggiungerei un’Europa nordica, che si sta fondendo con quella baltica e punta a creare una sorta di super Nato.
A proposito della Nato, quali sono stati i cambiamenti più significativi sanciti a giugno dal vertice di Madrid?
Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla difesa dell’Europa, ma non sono disposti a colmare il gap di capacità militari che il conflitto in Ucraina ha evidenziato. Questo è il primo. Molti paesi dell’Europa orientale sono rimasti delusi dalle modifiche alla postura militare americana annunciata da Biden; nel Vecchio Continente avrebbero voluto il doppio delle forze dislocate.
Gli Stati Uniti invece non vogliono sprecare eccessive risorse in Europa, che pure resta un teatro fondamentale, per non distoglierle dall’Indo-Pacifico e dal fronte interno, che minaccia di finire fuori controllo. Quella domestica, infatti, è la questione principale che ossessiona Washington: sta diminuendo la coesione nazionale e le sentenze della Corte Suprema suggeriscono che, per contenere la discordia sociale, si cerca di lasciare agli Stati federati più potere di legiferare su temi dirimenti, quali l’aborto o il possesso delle armi. A sua volta ciò rischia di generare un’ulteriore diminuzione della coesione sociale, creando più “modelli americani”.
Un altro passaggio sancito dal vertice Nato è che la Cina è una sfida di cui occorre occuparsi. Gli americani sono convinti che la situazione nell’Indo-Pacifico stia precipitando. Tempo fa il Pentagono parlava del rischio di guerra a Taiwan entro il 2027. Probabilmente il calcolo è stato aggiornato e anche per questo si alza quanto meno la “temperatura retorica” contro la Repubblica popolare cinese.
Alla luce del veto – poi rimosso a seguito di concessioni – all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, considera equilibrato il rapporto che il blocco europeo ha con la Turchia?
Sicuramente non è bilanciato. Ankara ha una profonda coscienza di sé, si sente intestata della missione di tornare allo status di grande potenza ed ha una coesione istituzionale, e in un certo senso anche nazionale, che le consente di muoversi con efficacia. Possiede anche oggettivi vantaggi geografici sui quali poter contare, come per esempio il controllo degli Stretti, e usa a suo favore il fatto che la sua presenza all’interno della Nato sia essenziale. Insomma, fa pesare tutti questi fattori contro i paesi europei, che sono divisi da altre necessità e ai quali manca, soprattutto, la percezione di essere attori fondamentali della storia e di dover lottare per tutelare i propri interessi fondamentali.
Lottare in che modo?
Ankara riesce a negoziare in maniera disinvolta, quasi sfacciata, perché sa di suscitare paura. Pochi altri paesi europei incutono timore e non hanno in ogni caso l’intenzione di usare tattiche negoziali poco gradevoli pur di arrivare all’obiettivo. Questa differenza di attitudine incide molto.
Tornando alla questione energetica, la strategia che i paesi europei, e in particolare l’Italia, stanno seguendo per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili russi la convince?
Per quanto riguarda la diversificazione delle fonti ci si sta muovendo nell’unico modo in cui era possibile farlo, non ci sono altre scappatoie. Alla questione del gas ci si sarebbe dovuto pensare molto prima, ma si è scelto diversamente. L’Italia, per fortuna, stando al centro del Mediterraneo può garantirsi linee di approvvigionamento diversificate, ma questo non risolve il problema di preparare il paese ad affrontare un inverno molto difficile. Ripeto, non mi sembra che ci si stia attrezzando a livello istituzionale per organizzare una campagna che coordini il sistema Paese e gli consenta di sopportare questi sacrifici. Che necessariamente arriveranno.
Parliamo dell’Ucraina, il paese dove si combatte e che però rispetto a prima ha meno spazio nell’informazione. Si sta lavorando per un accordo di pace o quanto meno una tregua?
A qualcosa si sta lavorando. Gli Stati Uniti stanno facendo passare il messaggio con Kiev che gli obiettivi posti dagli ucraini erano troppo ambiziosi e bisogna ridimensionarli. Questo riflette una correzione di rotta da parte americana e, benché non le chiamino pressioni per cedere territori, di questo si tratta. La cessione non sarà formale, ma si cercherà di arrivare a una tregua. D’altra parte, i fattori strutturali che hanno condotto alla guerra non verranno risolti da qui alla fine dell’anno.
Dal punto di vista mediatico è legittimo e doveroso spostare l’attenzione dal solo fronte ucraino perché questa è una guerra che cambia il mondo: ha innescato cambiamenti a livello internazionale e illudersi che il conflitto sia circoscritto, auto-contenuto, sarebbe profondamente irresponsabile.
Quali paesi o istituzioni saranno a suo avviso i mediatori indispensabili?
Le istituzioni possono offrire expertise, possono “metterci il tavolo”, ma l’opera di mediazione è riservata agli attori principali del conflitto: russi, ucraini, americani, i principali paesi europei e la Turchia. Saranno questi a dover comporre i loro interessi e a convocare poi momenti formali per sancire la tregua.
(Articolo pubblicato sul numero di luglio dell’Imprenditore)