

ALBERTO MATTIELLO
Da sempre la chiave del successo per qualsiasi azienda è capire i propri utenti e soddisfarne le esigenze. Allo stesso tempo, le aziende che cercano una crescita ambiziosa lavorano in mercati competitivi, che le spingono a fare evolvere continuamente la propria offerta per renderla più innovativa e distintiva. Questo è il motivo per cui assistiamo spesso ad una continua escalation di nuove funzionalità, alle volte non particolarmente necessarie, e, di conseguenza, alla crescita della complessità di tutto ciò che viene acquistato o noleggiato.
Questo fenomeno vale nel mondo del business to consumer come in quello del business to business: se solo pensate a quante delle funzionalità del vostro smartphone sapete utilizzare effettivamente – vi assicuro che anche il più preparato di voi ne usa al massimo un 5% – la percentuale non sarà molto diversa da un software gestionale o un CRM (Customer relationship management, ndr) che avete appena integrato nei processi aziendali. Se questo, da un lato, dà al cliente la sensazione di acquistare di più a meno, spesso nella quotidianità sfrutta solo una piccola percentuale del valore per cui sta investendo risorse. Funzionalità inutilizzate e un aumento della curva di apprendimento limitano le aziende a raggiungere il pieno potenziale di un nuovo strumento. Il risultato sono clienti e utenti frustrati, che sul lungo termine tendono ad abbandonare le soluzioni acquistate per passare alla concorrenza, che magari non propone nulla di diverso o nuovo, ma riesce soltanto a far capire con più maestria il valore messo a disposizione.
Per usare una metafora, alle volte aziende passano da uno strumento ad un altro allo stesso modo in cui un possessore di Ferrari passa ad una Lamborghini perché ha bisogno di un’auto per andare a divertirsi in pista, senza rendersi conto di avere già in garage un mezzo perfetto per farlo. A raccontarlo sembra quasi ridicolo ma è parte della quotidianità delle nostre aziende, che sostituiscono prodotti e fornitori senza la consapevolezza di avere già a disposizione quello di cui hanno bisogno: per questo, oggi, la capacità di far adottare il proprio prodotto/servizio è – e sempre più sarà – un fattore competitivo dirimente.
GLI OBIETTIVI DI UN “PIANO DI ADOZIONE”
Un buon “piano di adozione” diventa una strategia chiave per rendere soddisfatto il cliente e creare la base per una relazione duratura. Gli obiettivi fondamentali sono:
- rendere il cliente in grado di comprendere il valore che può ricevere dal prodotto che sta pagando;
- mettere il cliente nella condizione di ricevere il valore per cui sta pagando nel più breve tempo possibile;
- aiutarlo ad avere successo nell’uso del prodotto o servizio, guidandolo nell’essere in grado di ricevere il massimo valore a disposizione attraverso piani di formazione, coaching e affiancamento.
L’essenza stessa di un “piano di adozione” parte, però, da un assunto: le persone di solito hanno diversi livelli di tolleranza al cambiamento ed è importante tenerne conto quando si introduce qualcosa di nuovo nella loro vita lavorativa.
Geoffrey Moore, nel libro Crossing the Chasm pubblicato nel 1991, stimava che solo il 15% di un gruppo di persone che devono recepire una innovazione sono considerabili “early adopter” e “innovatori”. Queste persone sono motivate dal cambiamento e dalla sperimentazione di nuove funzionalità. L’altro 85% può essere diviso in altri tre gruppi. Il primo, chiamato “early majority”, è più lento nell’adottare nuovi prodotti. Tipicamente ha un approccio cinico e pragmatico, basato sul valore che percepisce direttamente nell’uso pratico del nuovo strumento. Una volta che lo fa tende, comunque, a ricondurre le novità agli schemi noti con cui ha sempre lavorato. “Late Majority” e “Laggards” sono ancora più conservatori e necessitano di molto supporto prima di utilizzare un nuovo strumento. Gruppi diversi richiederanno approcci diversi e va sempre tenuto a mente che, come dice il vecchio proverbio, “non si può accontentare tutti”.
Creare un “piano di adozione” significa quindi pensare a come dare il giusto valore a ogni tipo di utente, poiché tutti hanno esigenze uniche. L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di ascoltare durante l’uso del prodotto, dialogando con il fine di capire le specifiche esigenze. Un buon “piano di Adozione” parte, infatti, dallo sviluppo della capacità di ascolto: se non si riesce a misurare la soddisfazione degli utenti, i loro modelli di utilizzo e i loro progressi nel processo è impossibile verificare effettivamente se siano sulla strada giusta.
Questo processo dovrebbe iniziare ancor prima del lancio del prodotto, conducendo interviste e sondaggi. Una volta che il prodotto è uscito, è importante monitorare come gli utenti interagiscono con esso e raccogliere il loro feedback diretto e indiretto. In questo modo si può migliorare il prodotto e il processo di adozione stesso. Infine, è importante tenere presente che il processo di adozione non finisce mai. A mano a mano che il prodotto e gli utenti si evolvono, anche il “piano di adozione” dovrebbe svilupparsi di conseguenza.
LA MISSIONE PIÙ DIFFICILE: CREARE L’ABITUDINE
Ma ancora una volta questo non basta. Una volta che il cliente è al termine del processo di adozione, dobbiamo essere in grado di generare forse la cosa più difficile: utilizzare un prodotto digitale deve diventare un’abitudine e questo è qualcosa che richiede molta attenzione e pianificazione. Nir Eyal, professore di Stanford e autore del libro Hooked, dice che per sviluppare un’abitudine digitale serve ripetere un’azione, anche semplice, all’interno di una applicazione, almeno una volta alla settimana per un lungo periodo di tempo. E questo setta l’obiettivo finale di una azione di adozione.
Nel libro propone anche un interessante framework che può essere applicato a tutti i prodotti digitali. Il quadro Hooked prevede quattro fasi:
- trigger: il segnale che dice al tuo cervello di attivarsi nell’uso di un prodotto digitale. Nel tempo deve diventare un automatismo che, all’attivarsi di un trigger, in modalità automatica innesca un’azione abitudinale;
- azione: il comportamento che vorremmo veder ripetere agli utenti all’interno del prodotto digitale;
- ricompensa: il risultato positivo del comportamento che aiuta il cervello a capire se vale la pena ricordare questa particolare abitudine per il futuro;
- investimento: portare gli utenti ad investire tempo e lavoro all’interno del prodotto digitale, ad esempio personalizzandolo o salvandoci dei contenuti personali.
L’obiettivo, dunque, non è solo quello di convincere l’utente a utilizzare il prodotto, ma anche di farlo fruire così spesso da trasformarlo in un’abitudine. E questo non è ovviamente un compito facile. Tutte le fasi richiedono una grande attenzione per rendere l’assuefazione agevole e facile per l’utente, ma probabilmente la più importante è proprio la fase finale, quella legata all’investimento. Questa, infatti, diventa il deterrente vero all’abbandono dell’uso del prodotto.
Un modo per convincere gli utenti a investire nel tuo prodotto è quello che viene chiamato gamification. Questo è il processo di aggiunta di funzionalità simili ad una attività ludica per rendere il prodotto più divertente e coinvolgente da usare. Possono essere cose come badge, punti, classifiche, etc. che incoraggiano gli utenti a continuare ad utilizzarlo. La gamification può essere molto efficace nel portare gli utenti a formare abitudini, ma dovrebbe essere usata con attenzione in modo che non sembri forzata o artificiale.
In conclusione, la formazione delle abitudini è essenziale per il successo dell’adozione, ma non è facile. A pensarci bene, l’abitudine sta alla base della lealtà che tutte le aziende cercano di instillare nei propri utenti. Richiede molta pianificazione e attenzione ai dettagli, ma se si arriva alla fine di questo processo, con fruitori coinvolti e abituati all’uso di un prodotto, ci si ritrova con una base di utenti interessati che rimarranno fedeli a lungo.