Lavorare a cavallo tra Impresa e Università comporta di doversi costantemente interfacciare con due interessanti categorie di personaggi: gli imprenditori e gli studenti.
Relazionarsi contemporaneamente con l’uno e con l’altro permette di ottenere un punto di osservazione privilegiato, una diversa ed originale prospettiva.
Spesso la prima categoria può vantare esperienza e capacità imprenditoriali ammirevoli, ma talvolta denuncia la necessità di identificare nuovi spunti, nuove idee, vi è in estrema sintesi un diffuso bisogno di freschezza e rinnovamento.
La seconda categoria ha invece originalità e freschezza da vendere, ma non possiede risorse, relazioni, capacità imprenditoriali ed in generale tutte quelle qualità e quel know how che per essere sviluppato richiede esperienza.
Imprenditori e studenti sono perfettamente complementari, è una considerazione piuttosto ovvia.
Spesso però non riescono a comunicare tra loro, mancando le occasioni per confrontarsi ed interagire. Anche qualora si riesca a farli convogliare in un unico luogo, restano separati, quasi ermeticamente. Ognuno interagisce solo con i propri simili, si creano grappoli rispettivamente di imprenditori e studenti, senza che nessuno abbia il coraggio di rompere la barriera sociale e di linguaggio che li divide.
Qui emerge l’osservazione più interessante e meno banale, esiste una chiave per farli avvicinare e comunicare apertamente e senza filtri: l’innovazione.
Basta prendere degli imprenditori che cercano nuove idee per la propria impresa, metterli di fronte ad una classe di studenti e lanciare la sfida.
I ragazzi verranno colti dall’entusiasmo di sentirsi imprenditori e faranno emergere progetti ambiziosi e originali, senza porsi alcun limite. Gli imprenditori verranno colti dall’entusiasmo di una nuova sfida che potrà rivoluzionare la propria impresa e torneranno a sentirsi dei ragazzi pronti a cambiare il mondo. A quel punto la magia avviene. Gli studenti diventano imprenditori, gli imprenditori diventano studenti. I risultati sono tanto ovvi quanto sorprendenti. L’impresa si ringiovanisce e si rinnova lanciando nuovi progetti e affrontando nuove opportunità di business che non avrebbe altrimenti nemmeno preso in considerazione. Gli studenti crescono.
Ecco perché è così importante creare occasioni e luoghi in cui giovani e imprenditori possano incontrarsi e comunicare grazie al comune entusiasmo per l’innovazione.
Al Biennale Confindustria PI un centinaio di studenti del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari si sono mescolati alla folta platea di imprenditori presenti al Mulino Stucky. La loro presenza è forse passata inosservata a molti. In questa rubrica potrete però trovare tutto l’entusiasmo e le suggestioni che hanno animato quelle due giornate in cui si sono finti degli imprenditori. Hanno fatto lo sforzo di scrivere nella rivista l’Imprenditore, con un linguaggio rivolto a tale categoria, al fine di tentare un primo passo per abbattere quella barriera sociale. L’esperimento darà i suoi frutti? Ai lettori la sentenza.
Il ruolo dell’impresa nel mutato contesto economico-sociale
di Claudio Bragato | Riccardo Busin | Giovanni Carrer | Isacco Colussi | Federico Furlan
“Aspetto il sistema o continuo io a correre?”. Questo è il dilemma che si pongono ogni giorno molti piccoli imprenditori italiani, aspettare che sia il sistema a cambiare o farsi loro stessi fautori del cambiamento.
Che lo Stato italiano sia lento è un dato di fatto. Un’indolenza che corrobora il nostro sistema Paese ben prima della crisi economico-finanziaria del 2007, un ritardo che deriva essenzialmente dall’incapacità dello stato di riformarsi e rinnovarsi. Le lungaggini burocratiche, gli sprechi, la mancanza di concorrenza, la corruzione, sono tutti aspetti della zavorra che il Bel Paese si porta appresso e che le aziende sono costrette a subire. La burocrazia costa almeno un 4% di minore PIL all’anno, l’inadeguatezza delle infrastrutture ne sottrae un altro 2%, i ritardi dell’istruzione il 13% e l’insufficienza della concorrenza l’11%; se infine riducessimo la corruzione al livello della Spagna potrebbe aumentare dello 0.6%. Il tutto pesa circa 485 miliardi di euro (30% in meno di PIL), l’equivalente di 19.400 euro a famiglia.
Sfide come l’ingresso della Cina nel WTO (“World Trade Organization”), la costituzione dell’Euro e la nascita della new economy, non hanno fatto altro che evidenziare i limiti di un’Italia impreparata al futuro.
Solo un numero: dal 2000 la produzione industriale mondiale è salita del 36%, mentre in Italia è scesa del 25%.
Da qui nasce la necessità di un nuovo patto tra Stato e cittadini, tra politica ed economia, affinché vengano poste le basi di una Terza Repubblica, fondata sull’impresa e sui suoi valori.
Ma non c’è più tempo per aspettare lo Stato. Gli imprenditori non devono più usare il sistema come una giustificazione, devono loro stessi farsi carico della sfida al rinnovamento. La rivoluzione deve partire dall’interno, per poi coinvolgere i cittadini e le istituzioni. L’impresa pensata da Alberto Baban è un’impresa che si fa portatrice di sviluppo e valori che contagino e creino il “nuovo Rinascimento italiano”. I nuovi modelli di business dovranno essere fondati su innovazione, ricerca e sviluppo, ma soprattutto sulla ridefinizione del ruolo dell’individuo all’interno dell’impresa e della società più in generale, ricordandosi che, come evidenziato da Roberto Zuccato, Presidente Confindustria Veneto, “il nostro capitale umano non è secondo a nessuno”. L’italianità deve essere tradotta in prodotti innovativi, di qualità, e l’impresa dovrà essere brava ad intercettare le spinte date dalla globalizzazione come un’opportunità. E l’unica lentezza che dovrà essere evidenziata sarà quella riscontrabile nell’estetica, nel gusto del bello, nella cura del dettaglio e nella ricerca della raffinatezza, ossia il meglio che il mercato italiano debba e sappia dare. L’offerta deve essere oramai rivolta a tutto il mondo, senza distinzione tra mercato domestico e mercato estero, l’internazionalizzazione assurgerà a caratteristica preponderante del nuovo modo di fare impresa. Internazionalizzazione e crescita, per imprese medio-piccole significa anche “fare rete”, cercare una maggiore collaborazione tra imprese stesse col fine ultimo di emergere sul mercato globale, creando un ecosistema di business singolarmente innovativi e nel loro insieme vincenti. Altre due direttrici lungo le quali l’impresa del futuro dovrà necessariamente muoversi sono i talenti e la finanza, intesa sia come capacità di usufruire di strumenti finanziari alternativi (ad esempio i minibond) sia come attitudine a rapportarsi con un private equity.
In Italia quello che non manca sono i giovani talenti che però sono costretti ad emigrare per esprimere al meglio le loro idee, attitudini, capacità. I dati sono preoccupanti: ci sono 400mila talenti italiani che hanno deciso di andare all’estero e quasi due terzi di loro non hanno intenzione di tornare. Questo fenomeno è correlato ad una perdita endemica di innovazione: il talento è, esso stesso, innovazione e senza di esso si è destinati a morire. Ogni giovane che emigra è una risorsa che l’Italia perde e una mancata possibilità di rinnovamento e trasformazione. L’Italia deve rinnovarsi affinché da punto di partenza diventi un punto di arrivo. Ciò è auspicabile poiché le aziende che hanno investito in giovani talenti sono state quelle con performance migliori, anche durante la crisi.
Allo stesso modo la finanza deve portare alla collaborazione tra imprese e sistema bancario (ancora la più grande fonte di finanziamento all’interno dell’impresa). Banca che diventa consulente col quale confrontarsi e fare gioco di squadra. Di importanza strategica risulta nell’ultimo periodo l’azione della BCE che punta ad accrescere, tramite l’immissione di denaro nei mercati attraverso il quantitative easing, la liquidità a favore delle imprese. A sostegno di questo processo, inoltre, si affiancano nuovi strumenti che favoriscono lo sviluppo di progetti imprenditoriali: minibond, factoring, apertura del capitale a fondi di private equity. La diversificazione delle fonti di finanziamento permette di plasmare una struttura finanziaria che segua le esigenze di liquidità delle singole aziende, dando quindi la possibilità di realizzare strategie innovative di sviluppo nel medio/lungo termine, finanziandosi con strumenti coerenti nei tempi e nelle richieste di rimborso. In questo modo anche le piccole aziende possono attrezzarsi ad uno sviluppo maggiormente competitivo in un’ottica di competizione globale.
Le politiche recenti della BCE, unite alla svalutazione dell’euro e alla diminuzione del prezzo del petrolio, sono variabili macroeconomiche che creano un ambiente favorevole allo sviluppo di nuovi modelli innovativi di fare impresa. Il terreno è quindi fertile per realizzare questa trasformazione e le PMI devono cogliere la situazione come un’opportunità per ricominciare a correre e compiere quel salto per passare dal subire il futuro all’essere resilienti e cambiarlo.
Il successo oltre il confine
di Elisa Biasio | Marta Da Ros | Ludovica Dei Tos | Carlotta Mazzoni | Nicola Sarain
Creare una vocazione all’export non vuol dire spostare la produzione all’estero, ma andare a produrre la stessa, o una simile, gamma di prodotti anche per gli altri Paesi. Per un’impresa internazionalizzarsi significa innanzitutto aumentare le relazioni e i rapporti con imprese, consumatori e istituzioni operanti sui mercati esteri.
È opportuno quindi precisare che anche se nell’immaginario collettivo la parola internazionalizzazione viene spesso associata a quella di delocalizzazione, in realtà si tratta di due concetti profondamente diversi e non complementari tra loro.
Sicuramente l’internazionalizzazione è tutt’altro che facile da realizzare. In un mondo sempre più globalizzato e informatizzato si è soliti pensare che non dovrebbe essere così difficile per un’impresa inserirsi nel panorama internazionale. Il processo di internazionalizzazione si rivela spesso piuttosto tortuoso e ricco di insidie: per competere nei mercati internazionali infatti non è sufficiente seguire la scia delle grandi multinazionali e adottare le loro stesse strategie, ma le piccole e medie imprese invece devono saper sfruttare la flessibilità che le caratterizza. Bisogna inoltre tener presente che questo processo di internazionalizzazione deve partire dall’interno dell’impresa stessa e che i presupposti necessari per la crescita sono un’organizzazione multinazionale da accompagnare a particolari scelte dell’impresa riguardanti innovazione, competitività e molto altro, senza dimenticare che un ruolo molto importante deve essere svolto dalla politica e dallo Stato.
La vera sfida, secondo noi, sta nel fatto di non considerare le altre imprese come dei competitor a livello mondiale quanto piuttosto quella di riuscire a creare una sorta di cooperazione a livello internazionale, o ancor meglio una ‘coopetizione’, per far sì che l’impresa si possa affermare nei mercati globali.
In particolare siamo convinti che per realizzare tutto questo serva un cambio di prospettiva, nel senso che ci deve essere la volontà, ma soprattutto la capacità dei manager dell’azienda di riadattare il modello di business e la strategia, nel tentativo di creare qualcosa di più grande e di più significativo. Diventa infatti cruciale riuscire a cavalcare l’onda del cambiamento piuttosto che lasciarsi travolgere.
Il termine stesso “trasformazione” (dal latino trans= oltre e forma= forma, aspetto) suggerisce come non si debba creare nulla di nuovo né distruggere quella che è la sostanza insita nell’identità di un’impresa, quanto invece sia necessario dare una nuova forma combinando elementi diversi e togliendo il superfluo.
Diventa quindi importante a nostro parere preservare ciò che contraddistingue le PMI dalle grandi imprese e dalle multinazionali, focalizzando piuttosto l’attenzione su ciò che tutt’ora permette loro di sopravviver nonostante la crisi: la limitata dimensione, ma anche la grande flessibilità, che consente alle PMI di reagire più velocemente ai mutamenti di scenario.
Si tratta infine di un processo che in questo periodo è favorito anche da alcuni fatti esterni come la svalutazione dell’euro, i quali però interessano le nostre PMI fino ad un certo punto. Le imprese che sono resistite alla crisi – come sottolineato da Navaretti – si sono abituate nella maggior parte dei casi a competere sulla qualità e non più sui costi. Come emerso anche dalla tavola rotonda sviluppata attorto a questo tema, il “Made in Italy” è ancora un valore che aiuta le imprese italiane nel portare i propri beni all’estero. Centrale è dunque il tema della qualità, che rappresenta uno dei principali driver di scelta.
Dunque, perché puntare all’estero? Per diffondere il Made in Italy perché ha grande appeal oltralpe e permette di essere sfruttato da grandi imprese e PMI come volano di crescita. Insomma, l’obietto è quello di diffondere il Made in Italy in tutto il mondo. E questo sarà possibile anche grazie ad una serie di stanziamenti che, per il 2015, ammontano a 160 milioni di euro. Il Ministro dello Sviluppo Economico sta provvedendo a sostenere l’export sia sul fronte interno, attraverso il finanziamento di eventi fieristici o a voucher che consentano alle piccole e medie imprese di accedere a management specializzato nell’export a costi ridotti, sia sul fronte estero, puntando prevalentemente sulla grande distribuzione organizzata.
La globalizzazione economica impone quindi ai nostri imprenditori di valutare con grande attenzione l’internazionalizzazione delle loro aziende.
Infatti, l’aumentata competizione su scala intercontinentale ha fatto sì che un numero sempre maggiore d’imprese, anche di medie e piccole dimensioni, si attivassero per cercare nuove occasioni sui mercati esteri.
L’internazionalizzazione può consentire alle aziende di dar vita a nuove opportunità, creare ulteriore valore, sopravvivere nel tempo ed infine di lavorare per il successo della loro missione. I manager devono far acquisire all’azienda uno status multinazionale cambiando ed allargando la cultura d’impresa.
Internazionalizzare l’impresa significa sottoporla ad un processo di complessa revisione. Tale processo investe l’intera struttura, comprese le risorse umane, l’assetto finanziario, il posizionamento sul mercato. L’organizzazione deve essere rivisitata, aggiornata ed ampliata tenuto conto dei fondamentali propri di una imprenditorialità che deve competere a livello intercontinentale.
L’internazionalizzazione non riguarda più le grandi imprese come avveniva in passato, ma è un fenomeno che deve essere preso in considerazione anche dalle piccole e medie aziende per disincagliarle dalle secche di una crisi economica e finanziaria che, in Italia, le sta estinguendo a ritmi crescenti.
Occorre, dunque, senza indugio, offrire all’impresa uno scenario extranazionale per dilatare il suo orizzonte economico, per costruire nuove e fondate speranze di crescita, da conseguire mediante l’ottimizzazione dei fattori della produzione e con strategie di economia aziendale mirate al conseguimento di risultati gestionali positivi.
Internazionalizzare non significa “fare un tentativo commerciale” contattando nominativi presi da banche dati, bensì pianificare un progetto strategico che consenta al prodotto “Made in Italy”di inserirsi e posizionarsi durevolmente all’interno di un canale della distribuzione che dia visibilità per identificare, far conoscere ed apprezzare l’azienda.
Per essere competitivi sulla scena internazionale occorre che l’impresa intercetti il giusto mercato in grado di assicurarle reali benefici economici.
Per concludere, evidenziamo che l’obiettivo di un’impresa indirizzata verso il mercato estero consiste nell’ ottenere un sostanzioso aumento della produzione e/o vendita delle merci, di beneficiare di un’adeguata riduzione dei costi di produzione e di manodopera e, se possibile, di sfruttare prerogative godibili a seconda delle peculiarità che quel nuovo mercato offre.
Internazionalizzazione: è ormai un imperativo per tante imprese che, soffocate dalla morsa della crisi e da un’economia ancora particolarmente ingessata, hanno grosse difficoltà ad andare avanti. I mercati esteri, infatti, costituiscono un terreno più fertile rispetto a quello locale e un grande potenziale di crescita non ancora sfruttato.
La rivoluzione industriale 4.0
di Valerio Capecchi | Simone Gennaro | Mirco Guidi | Silvia Lazzarini | Matteo Manfredini | Virginia Menegus
“Daremo un nuovo volto all’Italia”. Quante volte abbiamo sentito queste parole da parte di politica ed istituzioni? Tutti si propongono di aiutare famiglie, imprese e giovani per cambiare il Paese ma è proprio questa parola, cambiamento, il più grande mito italiano.
I giovani quindi lanciano la loro proposta: lasciateci spazio e faremo si che il vero mito italiano diventi quello della Fenice in grado di rinascere dalle sue ceneri.
La fine del secolo scorso ha dato l’avvio a quella che viene definita la “Terza Rivoluzione Industriale” ed ora, a distanza di meno di 50 anni, sta cambiando nuovamente la concezione del prodotto e si stanno aprendo le porte ad una nuova rivoluzione industriale, chiamata “Manifattura 4.0”. Tra i principali fattori scatenanti vi è la massiccia e capillare diffusione di internet, che ha consentito la democratizzazione delle nuove tecnologie, spostando in questo modo la competitività delle imprese dalla tecnologia all’innovazione, e che ha fatto nascere “l’internet delle cose”. Sensori programmati per far comunicare macchine diverse creano l’idea di un’intelligenza distribuita e rendono labile il confine, concepito con la terza rivoluzione industriale, tra la sfera fisica e quella virtuale.
Il mondo è in continua evoluzione e le imprese si trovano alle porte di una nuova sfida competitiva. In questo contesto l’Italia ha sicuramente le carte in regola per tornare a giocare un ruolo da protagonista nel mercato globale ma deve riuscire a cambiare e ad eliminare gli ostacoli che frenano la sua crescita.
Per innovarsi e rinnovarsi l’Italia deve ripartire da ciò che le ha sempre consentito di distinguersi dagli altri Paesi, ovvero il Made in Italy. Questo brand, terzo al mondo, è il concentrato della nostra cultura e delle nostre tradizioni ed è simbolo di qualità, passione e buon gusto. Aggiungendo l’innovazione a questo mix, già vincente, di fattori, le PMI italiane sono in grado di dare vita ad un nuovo Rinascimento dell’impresa e di creare nuove tecnologie, nuovi prodotti e soprattutto nuovi significati. L’elemento distintivo del nuovo modo di fare innovazione, infatti, non risiede tanto nel prodotto in sé quanto nella capacita dell’impresa di attribuirgli significati diversi ed innovativi. In virtù di quanto detto, nell’economia di oggi le macchine sono tornate ad essere un mero strumento in mano all’uomo, che deve essere rimesso al centro dell’impresa in qualità di fattore determinante nella creazione del valore della stessa.
Sfruttare valori, tradizioni ed innovazione non è tuttavia sufficiente per avere successo in un contesto economico e sociale fortemente instabile e diventa necessario adottare strategie aziendali caratterizzate da un altro grado di flessibilità.
Il fattore che può fare la differenza tra un’impresa di successo e una che lotta per la sopravvivenza è la velocità di cambiamento. Per cavalcare la cresta dell’onda è necessario essere i primi a proporre i nuovi prodotti, al fine di ottenere un vantaggio competitivo nei confronti di coloro che si tufferanno solo successivamente nelle acque blu del nuovo mercato creato. Ma l’onda raggiunge velocemente la riva e chi non è riuscito a trovarne un’altra da cavalcare rischia di impattare sugli scogli e terminare lì la sua corsa. L’impresa deve quindi adottare una blue ocean strategy e, al contempo, lavorare già per crearne un’altra. Le acque blu del nuovo mercato rimangono pulite sempre meno in quanto l’attrattiva che produce quest’ultimo diventa un invito a pranzo per gli “squali” (le altre imprese) che presto corrono a sfamarsi e a spargere sangue, colorando di rosso quell’oceano. Non vince più il pesce più grande ma il pesce più veloce, quello capace di spostarsi prima degli altri in una vasca in cui sarà l’unico a nuotare e in cui sarà ricca l’offerta di cibo a sua disposizione.
Per poter innovare e cambiare velocemente bisogna combattere le resistenze al cambiamento presenti all’interno delle imprese e cambiare il sistema Italia, intervenendo su aspetti quali la burocrazia, gli sprechi e la lentezza, che ostacolano la crescita e riducono la competitività delle PMI italiane al di fuori del mercato locale. Altro problema, tutto italiano, da risolvere è quello di non riuscire a trattenere i giovani talenti che forma con la sua istruzione i quali, delusi e amareggiati, scappano all’estero per sfruttare le opportunità e gli spazi che il Bel Paese sta offrendo loro.
“L’impresa è lo specchio dell’Italia; solo se l’impresa cambia, il Paese può cambiare”: queste le parole di Baban, presidente della Piccola Industria di Confindustria, che a tal fine ritiene necessario ricercare una sinergia corale tra imprese, istituzioni e lavoratori.
Il modo di fare impresa può trasformarsi solo se scendono in campo le nuove generazioni, che si dimostrano più propense al cambiamento e più sensibili agli stimoli offerti dell’ambiente circostante. Molti imprenditori e manager sostengono, in aggiunta, che l’innovazione sia nelle loro mani perché, “anche se non hanno molta esperienza nel settore in cui si inseriscono, hanno la mente sgombra e riescono ad essere molto creativi; in loro c’è la voglia di mettersi in gioco e di emergere e quel pizzico di incoscienza di correre il rischio di fallire, insito nel fare innovazione”.
Queste considerazioni sembrano spianare la strada a quelli che a breve saranno i nuovi imprenditori e si troveranno in mano il testimone per correre la prossima frazione della staffetta del nostro Paese verso la crescita economica.
Ciò che si è presentato agli occhi dei giovani studenti che hanno preso parte all’evento “Il Rinascimento è l’impresa”, organizzato da Confindustria, è stata una folta platea di imprenditori che, nonostante la crisi, riescono ancora a trovare la giusta chiave per continuare a far cresce le loro imprese con lo stesso amore con cui un padre cresce il proprio figlio. Oggi la nuova generazione guarda con un pizzico d’invidia chi ha avuto la fortuna di cominciare a fare impresa in un periodo in cui il mondo era come una stanza vuota da riempire e non era poi così difficile trovare l’intuizione giusta su cosa proporre per quella stanza; l’accesso al credito era, inoltre, alla portata dei più e i casi di insuccesso dell’attività intrapresa erano abbastanza limitati.
Ora, invece, fare impresa è molto più complesso perché quella stanza è satura e solo le innovazioni radicali riescono a farsi spazio grazie alla rivoluzione che sono in grado di apportare ad un angolo del locale; ottenere finanziamenti è diventato un’impresa non di poco conto e a questo va poi sommata l’onerosità sempre maggiore della burocrazia. Il risultato che ne scaturisce è che l’80% delle nuove imprese non supera i cinque anni di vita.
Nonostante ciò i giovani sono la più grande fonte di ottimismo sulla crescita futura, intravedono già lo spiraglio di una nuova porta che si sta aprendo; sono le ali che potrebbero consentire alle imprese italiane di tornare a volare ad alta quota.
Il Veneto, la Silicon Valley italiana
di Gianmarco Chiusso | Francesca Bonato | Alberto Morellato | Elena Palmarini | Selene Piotto
La capacità dei nostri imprenditori di rispondere alle esigenze del mercato non è in discussione, ma la vera sfida, oggi, è quella di imparare a proporre, in un contesto non più di crisi bensì di trasformazione in cui le imprese diventano protagoniste creando nuovi significati.
Fin dagli anni ’50 le nostre piccole e medie imprese si sono distinte per il loro dinamismo e per la qualità della loro offerta. Oggi, si trovano però a competere in un mondo in continua evoluzione in cui l’unica costante è il cambiamento.
Troppo facile tuttavia oggi lamentarsi di ciò che non funziona. Una mente arrabbiata non migliora le cose, una mente determinata le cambia. Tasse e burocrazia rappresentano sicuramente un ostacolo non indifferente, ma è inutile autocommiserarsi quando basterebbe guardarsi in faccia per comprendere a pieno la nostra straordinarietà: il mondo ci conosce per le nostre eccellenze.
Se tracciassimo una circonferenza con un raggio di ottanta chilometri e centro tra Venezia, Padova e Treviso, ci renderemmo conto che qui sappiamo fare tutto. La tanto decantata Silicon Valley è proprio dietro l’angolo.
La creatività diventa così un driver importante che permette agli imprenditori di valorizzare i loro prodotti. L’eccellenza italiana non può e non deve diventare una commodity. La qualità, da sempre nostro punto di forza, è il segreto per sopravvivere e rilanciare il sistema Paese.
In questo senso Venezia, come ha affermato Agnese Lunardelli, Presidente Comitato PMI Confindustria Venezia, offrirebbe numerosi stimoli, grazie al suo patrimonio artistico e culturale.
L’auspicio, dunque, è che i nostri imprenditori, sostenuti dalle istituzioni, si rendano conto delle loro capacità e affrontino con coraggio, oggi come nel passato, le sfide che la storia ha posto loro di fronte. E che la politica italiana, spesso immobile e sorda davanti alle esigenze del mondo reale, affronti con altrettanta determinazione i gravi problemi che affliggono le nostre piccole e medie imprese.
Diversificare le forme di finanziamento
di Noemi Figliolini | Veronica Perin | Daniele Quinto | Matteo Rossin | Alessia Scroccaro | Martina Sgiarovello
Mini bond, factoring, apertura del capitale a fondi di private equity e quotazione in Borsa, sono questi gli strumenti non convenzionali a disposizione per lo sviluppo dei progetti imprenditoriali. In particolare i primi risultano fondamentali per la crescita dell’impresa nel medio lungo periodo.
Nonostante si intravedano i primi segnali di ripresa, il credit crunch è ancora un problema per le piccole imprese. La globalizzazione, stringenti regole europee che segmentano l’accesso al credito e la necessità di investimenti in risorse umane e R&D sono, secondo il Prof. Iacobucci, le sfide più intriganti per la finanza d’impresa. Ma le opportunità legate agli strumenti finanziari sono molteplici, in particolare si consente all’impresa di attuare le proprie strategie e di versare il capitale a scadenza, senza continue e pressanti richieste di rimborso. Inoltre, l’accesso ai minibond richiede requisiti di trasparenza e rating appropriati. Aspetto, questo, che mette in luce l’affidabilità dell’impresa e contribuisce in modo significativo alla sua visibilità. Diversificare le fonti di finanziamento diventa quindi conditio sine qua non per lo sviluppo imprenditoriale.
Contrariamente al pensiero imprenditoriale veneto, “accettare un socio è un’esaltazione del ruolo dell’imprenditore, non una sua diminuzione”, sostiene il Prof. Iacobucci. A questo proposito, il Presidente Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, rivaluta il ruolo dei fondi di Private Equity, che, se non utilizzati a fini speculativi, possono rappresentare un’ulteriore possibilità di crescita per l’impresa.
Tuttavia, al contrario delle medie imprese, per la maggior parte delle PI non è possibile utilizzare i Mini Bond o cedere parte delle proprie quote ad un fondo di private equity il più possibile assennato. Di comune accordo, la soluzione più efficace per questo tipo di realtà è quella di agganciare a questi strumenti un appropriato sistema di garanzie a livello europeo, potenziando i fondi pubblici e privati a disposizione.
L’imprenditore di successo deve oltretutto affrontare e superare il problema della delega, che fino a questo momento ha rappresentato lo scoglio maggiore alla crescita, a causa della modesta propensione degli imprenditori ad affidare la gestione tecnica a figure esterne competenti.
Si tratta in sostanza di sfatare il mito della figura padronale e accentratrice dell’imprenditore tipica del NordEst.
In merito al rapporto tra banca e impresa, Carlo Messina, Consigliere Delegato Intesa Sanpaolo, vanta l’erogazione di crediti ad aziende, pmi e famiglie, per 120 miliardi da giugno 2011. Somma notevole che verrà incrementata, nel 2015, con uletriori erogazioni per altri 37 miliardi. Se le banche non supportano le imprese il sistema non riparte: la stabilità del rapporto tra attività bancaria e imprenditoriale costituisce infatti la premessa per la crescita delle imprese. Le banche, nonostante si trovino in condizione di sofferenza, possono comunque erogare credito, a patto che sussistano determinate condizioni di merito. Per comprenderle e valutarle a fondo, non c’è di meglio di un professionista che si rechi direttamente in azienda per esprimere un giudizio sul suo operato. Gli automatismi a cui si era abituati devono essere aggiornati. Il cambiamento di sistema, dopo la crisi, necessita di una nuova visione e di una trasformazione importante anche in quel settore per così dire “chiuso” quale può essere la finanza aziendale. Quindi, l’utilizzo di nuovi strumenti finanziari, il “gioco di squadra” e una collaborazione attiva tra banca e impresa possono rimettere in sesto un sistema ormai provato.
E’ arrivato il momento di agire ed avere il coraggio di fare i passi in avanti necessari affinchè quanto detto non rimanga un “argomento da convegno” .
Il nuovo rinascimento: rimettere al centro l’uomo
di Alessandra Tesser | Elena Trovò | Enrico Venturini | Lara Zago | Lucia Zanatta
La tecnologia invade sempre di più le nostre vite e ciò crea incertezza, ma al tempo stesso genera infinite possibilità. Solo l’uomo è capace di plasmare questa complessità per generare innovazione.
Durante la Biennale PI di Confindustria si è parlato molto dell’era dell’Industria 4.0, che prevede una catena del valore interconnessa e governata autonomamente dalle macchine. Ma se il mondo del futuro sarà digitale allora ci chiediamo: le macchine che talento hanno? Dove finirà l’uomo? Diventerà un mero consumatore?
Le macchine potrebbero far guadagnare in competitività alle imprese, ma sappiamo che esse non possono davvero soddisfare ogni esigenza umana. L’uomo è alla continua ricerca di innovazioni e questo genera in lui la nascita di nuovi bisogni. Può davvero la tecnologia risolvere le domande esistenziali dell’essere umano così vario e diverso, e unico nel suo genere? Di una cosa siamo certi, un ruolo importante che l’uomo non perderà mai è quello di adattarsi ai cambiamenti del contesto: la macchina vive di algoritmi preimpostati, l’essere umano è un visionario, capace di anticipare i mutamenti futuri dell’ambiente. Con il suo talento crea valore aggiunto per l’impresa perché a differenza delle macchine è in grado di combinare le proprie idee per fonderle in soluzioni nuove ed originali.
L’uomo propone, la macchina esegue.
Quindi la sfida è rimettere al centro del sistema l’uomo rispetto alla tecnologia, o meglio creare un connubio tra le due entità che permetta al primo di non perdere soggettività e di non essere sopraffatto dal secondo. Proprio per questo, in riferimento al Terzo Rinascimento italiano, Carlo Bagnoli – docente di innovazione strategica a Ca’ Foscari – ha affermato: “Non si può fermare il progresso tecnologico, ma si può dare al cambiamento un significato diverso, rimettendo al centro l’uomo rispetto all’economia digitale”.
Ragionando per estremi: corriamo il rischio di vivere in un mondo in cui le macchine governano tutti i processi. Allora si aprono due scenari: o tutto costerà talmente poco da essere accessibile per chiunque; oppure l’uomo non avendo più un ruolo attivo all’interno del sistema verrà privato delle risorse necessarie per mantenere il proprio stile di vita e per esprimere la propria unicità. Per evitare che ciò avvenga bisogna ridare valore al talento umano, favorendo lo sviluppo di idee originali derivanti dalla combinazione di conoscenze maturate in diversi ambiti settoriali. Bisogna favorire l’interdisciplinarietà e il collegamento tra gli atenei, luoghi in cui deve avvenire il cambiamento attraverso la combinazione di nuove idee per creare qualcosa di sorprendente.
L’impresa è sempre stata una fabbrica di talenti e deve continuare ad esserlo.
Pensiamo si debba dare un nuovo significato alla crisi vedendola come un momento di transizione, senza guardare al passato ma mirando a nuovi orizzonti.
Non possiamo pensare che in un futuro le macchine sostituiscano l’essere umano, poiché queste sono frutto di una nostra invenzione e hanno l’obiettivo di semplificarci la vita. La tecnologia non deve essere il fine ma il mezzo.
L’uomo deve guidare il cambiamento dell’impresa.
L’impresa è lo specchio dell’Italia: se l’impresa cambia, il Paese cambia.
Quello che ci aspettiamo che le imprese facciano è investire nel capitale umano, sebbene questo sia un rischio dato che le perfomance umane potrebbero risultare più incerte e meno perfette rispetto a quelle automatizzate e meccanizzate delle tecnologie.
Si deve tentare, provare. Dobbiamo immaginarci il mondo come una ruota che gira: se restiamo fermi verremo schiacciati, muovendoci invece saremo motore del cambiamento.
“Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto” (Thomas Jefferson).
Allora, non pensiamo all’insuccesso come un mostro nero ma come un’opportunità da cogliere: solo sbagliando strada capisci che ce n’è un’altra giusta da prendere.
L’attuale Presidente della CRUI, Stefano Paleari, ha introdotto un pensiero coerente con la nostra visione di formazione: “Credo in due concetti vicini alla sensibilità imprenditoriale, e cioè educare ed ispirare. Se risaliamo alla radice latina, il primo significa “tirar fuori”, il secondo “insufflare, mettere dentro”, anche nel senso di motivare. Rappresentano due facce della stessa medaglia e sintetizzano bene la relazione che dovrebbe intercorrere fra l’università e il mondo delle imprese: alla prima il compito di educare, al secondo quello di ispirare”.
Le imprese devono collaborare con le università, devono camminare per mano con la cultura con l’obiettivo di raggiungere una quota di mercato più ampia grazie alla qualità del capitale umano.
Spesso i cambiamenti spaventano, ma è da questi che si possono trarre nuove opportunità, per vincere sfide le imprese non devono guardare solo i numeri ma devono rischiare. Come ha detto il Ministro Poletti durante l’evento “se non vuoi fare una cosa è sempre il giorno sbagliato, se la vuoi fare è sempre il giorno giusto!”. Quindi, si deve fare, per innovare e cambiare. Con i talenti.
A noi giovani i libri e le solite ore passate tra i banchi universitari ormai stanno stretti. Il sistema scolastico deve essere pioniere di questa rivoluzione: offriteci nuovi modi di imparare e metterci in gioco.