

IL NUMERO 1/2025 DELLA RIVISTA DI POLITICA ECONOMICA
Nel marzo di quest’anno Poste Italiane ha acquisito una quota rilevante di Tim, diventandone l’azionista principale. Non è stata soltanto un’operazione societaria: ha segnato il ritorno – di fatto – dello Stato in un settore dal quale era uscito trent’anni fa con la più grande privatizzazione dell’epoca. Per il mondo delle imprese, quel passaggio rappresenta un segnale chiaro: il rapporto fra mercato e intervento pubblico è entrato in una fase nuova.
Il punto non è solo la presenza di un azionista a controllo statale in un’azienda quotata. È la conferma che l’idea, dominante dagli anni Novanta, di un pubblico ridotto a regolatore e garante della concorrenza, ha lasciato spazio a una diversa impostazione. Oggi governi e istituzioni entrano direttamente nella proprietà, nelle filiere e nella strategia industriale. Non più in modo episodico, legato a emergenze o salvataggi, ma con l’intenzione di orientare traiettorie produttive e tecnologiche.
Per le imprese questo mutamento ha conseguenze dirette. Significa che l’accesso al capitale, la definizione delle priorità settoriali, le condizioni di concorrenza possono dipendere sempre più da decisioni pubbliche. E che la competizione non si gioca soltanto sul mercato, ma anche nella capacità di inserirsi in strategie nazionali o europee di medio periodo. L’interrogativo non è se lo Stato tornerà a intervenire: lo sta già facendo. La questione diventa come governi (e imprese) sapranno tradurre questo nuovo ruolo pubblico in crescita sostenibile, anziché in nuove distorsioni.
Il ritorno della politica industriale è un fenomeno globale. Negli Stati Uniti, i programmi varati negli ultimi anni – dal CHIPS Act all’Inflation Reduction Act – hanno mobilitato centinaia di miliardi di dollari per sostenere la manifattura tecnologica e l’energia rinnovabile. In Germania, il nuovo governo ha approvato un piano da mille miliardi di euro per infrastrutture e industria. La Francia ha concentrato risorse sull’Intelligenza artificiale e mantiene partecipazioni strategiche in settori tradizionali come l’automotive.
I dati confermano che non si tratta di episodi isolati. Analisi recenti mostrano che, a livello globale, il numero di misure riconducibili a politiche industriali – sussidi, incentivi, strumenti di sostegno settoriale – è più che raddoppiato nell’ultimo decennio, fino a rappresentare quasi la metà di tutte le decisioni di politica commerciale. In maggioranza si tratta di interventi mirati, spesso rivolti a singole imprese o filiere.
Per gli operatori economici, ciò significa un cambiamento radicale dello scenario competitivo. La presenza crescente dei governi modifica i prezzi relativi, condiziona le scelte tecnologiche, crea vantaggi per alcuni settori e svantaggi per altri. In un contesto simile, non è più sufficiente valutare i mercati sulla base della sola domanda o delle sole dinamiche di costo: occorre considerare la direzione delle politiche pubbliche e la capacità di intercettarne le priorità. La questione non è se il sostegno pubblico sia utile o meno, ma come si colloca ciascuna impresa all’interno di questo nuovo quadro.
Per l’Europa la nuova stagione di politica industriale pone sfide specifiche. Negli ultimi anni la Commissione ha allentato le regole sugli aiuti di Stato, consentendo agli Stati membri di intervenire con maggiore discrezionalità. Il risultato è stato un aumento consistente dei sussidi nazionali, ma in maniera disomogenea. Soprattutto, oltre l’80% di risorse pubbliche destinate a interventi di politica industriale ha origine nazionale, mentre circa il 20% è coordinato a livello comunitario. Il rischio evidente è una frammentazione che mina il mercato unico e accresce le divergenze tra sistemi produttivi. L’assenza di un coordinamento europeo forte rischia quindi di tradursi in una competizione distorta all’interno del continente, proprio mentre la pressione internazionale cresce.
Il recente rapporto Draghi ha messo in evidenza come la politica industriale europea, così com’è, sia ancora lontana dall’ambizione necessaria a sostenere il modello sociale del continente. Non basta aumentare la spesa nazionale: servono strumenti comuni, dal finanziamento di progetti strategici transnazionali all’emissione di debito condiviso, a misure calibrate settore per settore, con una attenzione particolare per quelli di rilievo strategico.
In Italia il ritorno della politica industriale si manifesta con caratteristiche peculiari. Negli ultimi anni sono stati rafforzati alcuni pilastri finanziari del capitalismo nazionale: la Cassa Depositi e Prestiti, Sace, le grandi società a partecipazione pubblica. Questi strumenti hanno la capacità di mobilitare capitali ingenti e di sostenere settori strategici. Per le imprese, significa disporre di interlocutori pubblici con cui costruire operazioni complesse di investimento, export e internazionalizzazione.
Il quadro rimane tuttavia incompleto. L’anello debole è quello delle competenze: il sistema formativo non fornisce ancora in misura sufficiente le professionalità tecnico-scientifiche necessarie per affrontare le diverse transizioni tecnologiche in corso. Senza un capitale umano adeguato, anche gli incentivi più generosi rischiano di non produrre effetti duraturi. Un altro limite è la tendenza a politiche orizzontali, che distribuiscono risorse in modo diffuso senza individuare priorità chiare. Per un tessuto imprenditoriale che resta frammentato e spesso sottocapitalizzato, l’assenza di una strategia settoriale riduce l’impatto complessivo degli interventi.
La sfida è quindi duplice: da un lato utilizzare in modo mirato gli strumenti finanziari esistenti per rafforzare filiere e specializzazioni ad alto potenziale; dall’altro investire in formazione, ricerca e trasferimento tecnologico.
Per gli imprenditori la posta in gioco è rilevante. In un contesto globale di competizione sui sussidi e di nuove barriere commerciali, restare ancorati a politiche generiche significa rischiare di perdere posizioni. Puntare invece su settori chiave e su competenze adeguate può consentire all’Italia di cogliere le opportunità di questa nuova stagione di politica industriale.
Sintesi dell’articolo pubblicato su RPE – Giugno 2025. Per scaricare il capitolo integrale cliccare qui
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Nota sull’autore

MARCO SIMONI
Marco Simoni è Professor of Practice alla Luiss “Guido Carli” di Roma, dove dirige l’Osservatorio “Policy, Industry, Europe” e insegna Economia politica europea.
Laureato alla Sapienza e PhD alla London School of Economics, è stato consigliere economico alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché amministratore di enti pubblici e privati. Scrive regolarmente sul Sole 24 Ore.

