
Negli ultimi anni la transizione ecologica ha progressivamente abbandonato la dimensione astratta per imporsi come un dato di fatto, una linea d’azione destinata a trasformare in profondità il tessuto economico e competitivo europeo. All’interno di questa dinamica, l’Unione europea interpreta un ruolo determinante: ambizioso sul piano degli obiettivi, fecondo in termini di contenuti, tutt’altro che consolidato a livello di metodo.
La madre di tutte le battaglie, come noto, è il Green Deal europeo, un progetto sistemico che punta alla neutralità climatica entro il 2050 e che orienta l’evoluzione del mercato interno verso modelli produttivi più sostenibili, digitalizzati e circolari, coinvolgendo imprese, territori e filiere industriali.
Lanciato nel 2019, è diventato la base di riferimento per un ampio pacchetto di direttive, nel cui ambito si colloca il Regolamento sull’ecodesign per prodotti sostenibili (ESPR), approvato il 18 luglio 2024 e destinato a introdurre progressivamente nuovi requisiti per la progettazione, la produzione e la gestione dei beni, promuovendo una visione olistica del ciclo di vita dei prodotti e una maggiore trasparenza lungo le filiere.
All’interno del Regolamento è integrato anche il Passaporto Digitale del Prodotto (DPP), che rappresenta uno strumento particolarmente innovativo al fine di perseguire gli obiettivi della trasparenza e della tracciabilità. Si tratta di una banca dati digitale, accessibile e collegata a un sistema interoperabile, che include informazioni dettagliate sul prodotto (materiali, componenti, presenza di sostanze pericolose, modalità di riparazione, riciclo e smaltimento…), sul percorso svolto all’interno della filiera (origine dei materiali, trasformazioni subite, localizzazione degli stabilimenti…) e su aspetti ambientali (impatto carbonico, uso del suolo, consumo idrico…). L’obiettivo dello strumento è quello di rendere verificabili e comparabili le performance di sostenibilità dei prodotti, supportando le autorità competenti nei controlli e indirizzando le imprese verso la digitalizzazione dei processi.
Nella visione del legislatore, l’integrazione tra requisiti tecnici e soluzioni digitali non solo migliora il coordinamento tra progettazione, produzione e fine vita dei beni, ma riflette una concezione dell’impresa orientata al lungo periodo, in cui la sostenibilità è parte integrante della qualità della gestione. Si rafforza così l’idea che il valore economico, generando benefici per tutti gli stakeholder, non sia separabile da quello sociale e ambientale. In sintesi: la conformità normativa non è un obbligo da adempiere ma una competenza distintiva dell’impresa.
Nel merito, se non nulla, ben poco da eccepire. Il percorso è tracciato, la meta va raggiunta. Però è fondamentale anche in questo caso avere robusta consapevolezza delle “condizioni gestionali” affinché questo (ennesimo) regolamento generi opportunità di crescita e non vincoli alla competitività. È una questione concreta, che investe il rapporto tra norma e prassi, tra visione politica e fattibilità industriale.
Molti imprenditori, anche i più aperti alla sostenibilità, mettono in discussione la reale applicabilità delle misure: “Noi ci allineiamo, investendo. Ma cosa succede a valle delle filiere? Chi ci tutela se noi siamo pronti ma il mercato non ci segue?”.
Per questo il rischio maggiore non è il rifiuto, ma l’inerzia: senza accompagnamento, anche la migliore delle innovazioni rischia di rimanere chiusa nei cassetti delle buone intenzioni. E l’inerzia tende a manifestarsi proprio là dove la filiera è più frammentata, le risorse sono scarse e le competenze digitali inadeguate.
Un esempio, dal particolare valore simbolico. Piccola impresa del legno-arredo, una trentina di dipendenti, una rete consolidata di subfornitori artigiani, processi efficienti ma poco digitalizzati. L’adozione del DPP rappresenterebbe un salto di qualità. In teoria. Ma le condizioni di realizzazione sono elevatissime: bisogna tracciare ogni componente, raccogliere e trasmettere dati da fornitori impreparati, investire in IT partendo quasi da zero, visto che un responsabile interno non c’è.
L’inerzia non deriva dallo scetticismo, ma dalla sostanziale impossibilità di implementare il sistema senza una rete di supporto. In casi come questo, il rischio è che la sostenibilità diventi un requisito esclusivo per chi può permetterselo, allargando il divario competitivo tra chi ha massa critica e chi lavora ai margini della filiera.
In questi possibili scenari, la retorica dell’impresa sostenibile come modello vincente nel medio-lungo periodo rischia di perdere forza se non viene accompagnata da una reale capacità del sistema di sostenere anche chi ha vincoli strutturali di adozione.
Il dato di fatto è che l’urgenza ambientale rischia di tradursi troppo spesso in una proliferazione di obblighi che impattano direttamente sulle strutture operative, richiedendo alle imprese di investire su asset intangibili (reputazione, coerenza organizzativa, capacità di lettura del cambiamento), che non tutti possono permettersi con le stesse modalità e soprattutto tempistiche.
Serve un cambio di prospettiva, che parta dal buon senso, dal pragmatismo, dall’orientamento al futuro, dal senso di responsabilità istituzionale; valori che caratterizzano intrinsecamente il tessuto imprenditoriale del Paese. È la prospettiva in base alla quale la sostenibilità si manifesta nella capacità di allineare le scelte produttive a un orientamento valoriale forte, ma anche nell’abilità di tradurre tali valori in modelli di business realistici, compatibili con il tessuto produttivo e con i suoi tempi di evoluzione.
Per le Pmi italiane il salto di qualità richiesto non riguarda solo le tecnologie o la compliance formale, ma la visione strategica con cui si affronta il cambiamento. Progettare in modo sostenibile, monitorare i flussi di materiali, organizzare il fine vita dei prodotti: sono sfide complesse che presuppongono maturità industriale e competenze aggiornate, ma che necessitano anche di un contesto abilitante che fluidifichi la trasformazione in atto.
Le imprese possono innovare, adattarsi, anticipare. Ma non possono fare tutto da sole. Se la traiettoria è tracciata, allora serve che chi ha il compito di orientare, formare, facilitare scelga di esserci, prima e non dopo. Non come spettatore o commentatore, ma come parte attiva nel costruire ciò che abilita davvero il cambiamento: strumenti, competenze, connessioni. Perché la transizione si costruisce sul campo, non dai margini.
NOTA SUGLI AUTORI

FEDERICO VISCONTI
Federico Visconti è professore ordinario di Economia aziendale presso la LIUC – Università Cattaneo, della quale è stato rettore fino al novembre 2024. Presso il medesimo ateneo è direttore di Civis, centro istituzionale sulla cultura, l’innovazione e i valori imprenditoriali per lo sviluppo.
La sua attività di ricerca riguarda la competitività delle Pmi e il family business. È vice presidente di Fideuram, membro del Consiglio dell’Istat e componente del Comitato scientifico di Piccola Industria Confindustria.

MARIO FONTANELLA PISA
Mario Fontanella Pisa è docente a contratto presso la LIUC – Università Cattaneo, dove si occupa di sostenibilità ed economia circolare, con particolare attenzione all’adozione di modelli e pratiche circolari nelle Pmi. È coinvolto in attività di ricerca e formazione sui temi della transizione ecologica e della responsabilità d’impresa e collabora con il Civis.
CHE COSA È IL CIVIS
È il centro di interesse istituzionale della LIUC dedicato a cultura, innovazione e valori imprenditoriali per lo sviluppo. La denominazione assume un particolare valore simbolico proprio perché richiama la figura del “cittadino”, il senso di appartenenza, l’assunzione di responsabilità, l’impegno verso la collettività.
Il Civis ha iniziato la propria attività a gennaio di quest’anno ed è finanziato dalla Fondazione Villoresi Poggi; è concepito come un volano di diffusione della cultura d’impresa presso una molteplicità di target, a cominciare dai giovani.
Si propone, inoltre, di contribuire allo sviluppo delle Pmi (con ricerche applicate e modelli operativi in materia di crescita dimensionale, performance management, gestione dell’innovazione, heritage industriale), con attenzione anche ai processi decisionali dell’imprenditore, inclusi quelli orientati alla sostenibilità economica, ambientale e sociale.
Il centro sviluppa pure strumenti per supportare l’attività didattica dell’ateneo e dei progetti della LIUC Business School.