
Responsible Care è un programma volontario globale, partito nel 1992 e gestito da Federchimica, che impegna le imprese a migliorare nelle aree della sicurezza, salute e protezione ambientale. In Italia vi partecipano 165 aziende, sia grandi che pmi.
La chimica ha a lungo sofferto, anche in tempi recenti, di un’immagine negativa in termini di impatto ambientale, quale eredità di un passato in cui altre erano le tecnologie e le priorità sociali (ad esempio, la crescita per rilanciare un paese sfinito nel dopoguerra) e differenti erano i sistemi normativi: una realtà che, infatti, si riscontra oggi in alcuni paesi emergenti, dove l’urgenza dello sviluppo è dominante rispetto alle esigenze climatiche e ambientali.
L’avanzata fase di “deinquinamento”, nella quale oggi si trovano tutti i paesi evoluti, è principalmente effetto di un’intensa attività di ricerca di soluzioni più “pulite”.
I progressi più straordinari in questa direzione riguardano proprio l’industria chimica, che è stata il primo settore ad avere concretamente sposato l’obiettivo dello sviluppo sostenibile attraverso il programma Responsible Care, nato in Canada nel 1984 dalla Ccpa (Canadian Chemical Producer Association) e poi adottato nel 1988 dalla Acc (American Chemistry Council). L’anno successivo il programma è stato avviato in Europa dal Cefic (European Chemical Industry Council).
Responsible Care è un programma volontario mondiale che impegna le imprese a perseguire il miglioramento continuo nelle aree della sicurezza, salute e protezione ambientale. Avviato in Italia nel 1992 e gestito da Federchimica, Responsible Care è attualmente perseguito con impegno e determinazione da 165 imprese di grande, media e piccola dimensione, italiane e estere. E i risultati non mancano. Per fare qualche esempio, dal 1989 le emissioni inquinanti in acqua sono diminuite del 62% per l’azoto, dell’80% per la domanda chimica di ossigeno. Ancora migliori sono i risultati conseguiti nell’abbattimento delle emissioni atmosferiche: -91% per gli ossidi di azoto, -92% per i composti organici volatili, -98% per le polveri e -99% per l’anidride solforosa.
Molta attenzione è stata dedicata alla gestione responsabile dei rifiuti, nella quale continua a diminuire la percentuale di quelli classificati come pericolosi, che oggi è soltanto del 28%. Inoltre, particolarmente interessante è la modalità di smaltimento: il 44% dei rifiuti viene recuperato o usato per il ripristino ambientale, a testimonianza della sensibilità delle imprese chimiche verso il concetto di economia circolare, la quale si basa sul riuso del rifiuto e/o sulla sua trasformazione in una nuova risorsa. Nel complesso gli investimenti destinati dall’industria chimica per la sicurezza, la salute e l’ambiente ammontano a circa un miliardo di euro, pari a circa il 2% del fatturato.
Va ricordato anche che le imprese sono sempre più impegnate a gestire responsabilmente l’intero ciclo di vita dei prodotti, dall’acquisizione delle materie prime alla fine o alla nuova vita del prodotto.
Allo stesso tempo l’industria chimica è all’avanguardia anche nello studio per usare al meglio le risorse: ricerca continuamente nuove strade per realizzare prodotti in modo sempre più efficiente e conveniente, riducendo al minimo gli sprechi nel rispetto della salute e dell’ambiente. Per avere un’idea, a parità di produzione, rispetto ad altri settori la chimica oggi utilizza il 26% in meno di petrolio per la trasformazione in prodotti chimici e ha migliorato del 50% la propria efficienza energetica; un risultato di gran lunga superiore agli obiettivi indicati dall’Unione europea per il 2020 e per il 2030. La petrolchimica non brucia il petrolio ma ne usa i derivati, quale ad esempio la “virgin-nafta”, come materia prima da cui si ottengono moltissimi prodotti come quelli che derivano dalle materie plastiche.
Parlando, invece, della chimica da biomasse, essa utilizza materie prime di origine biologica per mettere a punto prodotti e biocarburanti, contribuendo alla sostenibilità in due modi: attraverso l’uso di materie prime che comportano minori emissioni di gas serra e attraverso l’offerta di prodotti biodegradabili o biocompostabili. La frontiera tecnologica si orienta sempre di più verso materie prime prive di usi alternativi, come le colture agricole in aree a scarsa produttività, gli scarti e i rifiuti dell’industria agro-alimentare, le alghe e i microorganismi coltivati in condizioni artificiali.
Quello da fonti rinnovabili è, dunque, uno dei modi in cui la chimica contribuisce alla sostenibilità, ma non è il solo. Nella chimica inorganica, ad esempio, riveste grande importanza >
l’industria del cloro, dal quale si ottengono moltissimi prodotti, come la gran parte dei medicinali, inclusi molti farmaci “salvavita”. Innumerevoli usi ha anche l’acido solforico, adoperato per la depurazione delle acque e nei fertilizzanti, solo per citare alcuni esempi.
In merito all’uso razionale delle risorse, vale la pena evidenziare i progressi raggiunti sul consumo di acqua: migliorando i processi produttivi, le imprese chimiche lo hanno diminuito del 32% tra il 2005 e il 2015, limitando l’uso di acqua potabile da acquedotto ad appena l’1,0% e quella da pozzo all’11%. Soprattutto, il consumo di acqua è diminuito nell’agricoltura, che da sola impiega il 70% di tutta l’acqua dolce disponibile a livello mondiale: utilizzando i tubi in pvc, che si distinguono per durata e tenuta, nonché ricorrendo all’irrigazione a goccia, è infatti possibile abbattere drasticamente gli sprechi.
La sfida più importante per le generazioni future, quella dello sviluppo sostenibile, può dunque essere vinta anche grazie alla chimica, indispensabile motore di sostenibilità, profondamente legata all’innovazione e attiva nell’uso efficiente e razionale delle risorse. Minimizzando l’uso di quelle più preziose, riutilizzandole o sostituendole con altre meno rare e costose, si potranno valorizzare sempre più gli scarti e agire, a livello complessivo, in direzione di un’economia circolare.