
Il raffreddamento dell’hype sull’Intelligenza artificiale ha un merito: ci costringe a guardare ai conti. Molte imprese stanno scoprendo che l’adozione dell’IA costa più di quanto preventivato non per colpa della tecnologia, ma per come la si governa.
Il primo equivoco riguarda il prezzo: gli abbonamenti alle piattaforme sono diventati accessibili, ma la licenza è soltanto l’inizio. La spesa vera si forma sull’integrazione con i sistemi aziendali, sulla qualità dei dati, sulla formazione delle persone e sulla gestione continuativa di processi che evolvono di mese in mese. Per fare un esempio: un’azienda che sottoscrive un servizio IA da 100 euro al mese si ritrova spesso con un conto complessivo di implementazione nell’ordine di alcune migliaia di euro.
Non c’è nulla di anomalo: nelle Pmi il lavoro su dati e integrazioni assorbe tra il 40 e il 60% del budget, mentre le licenze pesano spesso appena per il 30-50%. È la differenza tra un costo “visibile” e il costo che permette alla tecnologia di funzionare davvero. Quando questa quota viene ignorata, l’investimento che sembrava leggero si trasforma in un progetto più lungo e oneroso del previsto e la macchina si inceppa proprio dove dovrebbe accelerare.
C’è poi un fattore che raramente entra a budget: il tempo del management. I progetti che arrivano a risultato mostrano un impegno della leadership per otto-dodici settimane, nell’ordine di due-quattro ore settimanali, necessario a fissare priorità, criteri di qualità e metriche di successo. Dove questa “sponsorship operativa” manca, le iniziative si arenano: nelle Pmi la quota di progetti che non supera la messa in produzione può arrivare fino al 70%. La curva a J della produttività è ben nota: nei primi tre-sei mesi si paga la fase di apprendimento e riallineamento dei processi; solo dopo si vedono i benefici.
Sul piano operativo, la formazione non è un optional. I team impiegano da quattro a sedici settimane per diventare davvero produttivi con i nuovi strumenti; se l’abilitazione si limita a un “how to” sul software e non tocca i flussi di lavoro — come si qualifica un lead, come si trasferisce un’opportunità alla rete vendita, come si validano gli output — la tecnologia resta in superficie e il ROI evapora. Senza un’analisi iniziale accurata delle esigenze specifiche dell’azienda (perimetro dei processi, obiettivi misurabili, qualità e disponibilità dei dati, vincoli regolatori) il rischio è adottare soluzioni sovradimensionate che complicano invece di semplificare. Si finisce per pagare funzionalità che non servono, moltiplicare i passaggi di governance, allungare l’onboarding dei team e introdurre rigidità dove sarebbe servita agilità. La diagnosi preliminare non è burocrazia: è l’unico modo per allineare tecnologia, processi e persone e per evitare rifacimenti costosi a metà del percorso.
Occorre poi investire in change management, cioè in competenze, policy d’uso e adozione: questa voce assorbe tipicamente il 10–20% del budget. A valle occorre manutenzione: monitorare gli output, aggiornare i modelli, rivedere periodicamente prompt e regole di priorità, gestire abbonamenti e versioni. È un onere ricorrente che molti imprenditori scoprono tardi, quando la macchina è già in corsa. Anche la compliance merita una riga nel conto. L’integrazione di modelli generativi con dati proprietari impone controlli su sicurezza, tracciabilità delle decisioni e gestione dei bias in un quadro regolatorio che si fa più stringente. Mettere a budget audit, documentazione e consulenza non è un vezzo burocratico: è assicurazione sulla continuità operativa e sulla reputazione.
La buona notizia è che, quando il disegno è corretto, i risultati arrivano e sono misurabili. Le Pmi che pianificano l’investimento complessivo a due-tre volte la stima iniziale (includendo dati, integrazioni, formazione e gestione) sono quelle che statisticamente raggiungono un ROI sostenibile in tempi più rapidi (Association of Proposal Management Professionals, Winning Business in the Age of AI).
Nei casi d’uso più tattici, come la generazione e qualificazione dei contatti o l’automazione dell’assistenza, in tre-sei mesi si osservano ritorni medi nell’ordine del 280–300%, equivalenti a 3,8-4,0 euro di ricavi totali per ogni euro investito (Microsoft, The Business Opportunity of AI). Non è un invito a spendere di più: è il modo per non farsi sorprendere da costi che altrimenti si ripresentano più avanti sotto forma di ritardi, rifacimenti e performance sotto le attese.
Il ragionamento ci porta dunque a questa conclusione, che per le Pmi italiane è particolarmente valida: il punto non è la tecnologia, è la regia.
L’IA non può essere un’iniziativa di singolo dipartimento, né un progetto IT travestito da innovazione. Richiede la capacità di tenere insieme obiettivi commerciali, qualità del dato ed esperienza utente. Difficilmente una Pmi dispone di una figura professionale interna che racchiuda tutte queste professionalità, ma la buona notizia è che questa funzione può essere avviata con un manager “fractional” con mandato a tempo, sei-dodici mesi, per mappare la maturità, definire le regole del gioco e trasferire competenze alla struttura interna. Costa meno di una posizione permanente e riduce il rischio di adottare soluzioni sovradimensionate per esigenze semplici, con l’effetto paradossale di complicare i processi e far lievitare i costi operativi.
L’IA può essere un acceleratore competitivo reale, ma i ritorni appartengono a chi tratta l’implementazione come trasformazione organizzativa, non come acquisto di software. La scelta, per le nostre Pmi, non è se adottarla o meno. È se finanziare la promessa oppure il risultato, accettando che il valore passa dai costi invisibili. Pianificarli non significa rassegnarsi a spendere di più: significa spendere dove serve, prima e meglio, con maggiori probabilità di arrivare primi.
Nota sull’autore

RAFFAELE BIFULCO
Raffaele Bifulco è co-fondatore e managing director di NEWU, soft infrastructure consultancy. Laureato in Estetica e con un master in Management e marketing presso la Luiss Business School, Bifulco ha iniziato la sua carriera nell’industria culturale come communication specialist del Museo MAXXI di Roma. Con NEWU e nel suo precedente ruolo esecutivo nell’industria dei media, ha lavorato per clienti come Google, Prada, Sky, Amazon, Netflix, Ferrero, Samsung e Spotify, guidando sia progetti di comunicazione a livello globale che team dedicati.
Collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Nuova Accademia di Belle Arti, tenendo corsi di marketing, comunicazione e project management. Inoltre, è mentor per il programma di accelerazione startup dell’Università Bocconi, Bocconi 4 Innovation.

