Misure automatiche e totalmente neutrali rispetto ai settori. il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda spiega perché industria 4.0 non è un piano dirigista e invita a consolidare le esportazioni in un quadro di regole internazionali eque e condivise.
A sei mesi dalla presentazione da parte del Governo di “Italia 4.0”, il piano per la trasformazione digitale dell’industria, quali considerazioni possiamo fare circa il suo andamento?
Il piano è stato presentato a fine settembre e ha già trovato attuazione nella legge di Bilancio 2017. È un risultato significativo e non scontato, considerando soprattutto l’ingente impegno di risorse pubbliche, pari a circa 20 miliardi di euro nell’arco del prossimo triennio.
Le principali misure sono appena entrate in vigore e quindi è prematuro compiere una valutazione della loro efficacia. Tuttavia il piano ha individuato e reso pubblici obiettivi quantitativi ben precisi e misurabili, in un’operazione di piena trasparenza che consentirà a tutti – policy maker e osservatori – di verificarne l’andamento nel corso dei prossimi mesi.
Cosa lo distingue da analoghi piani rivolti all’industria presentati in passato?
Il piano parte da un presupposto cardine: l’Italia ha una solida tradizione industriale che, per essere preservata e alimentata, necessita di innovazione. La quarta rivoluzione industriale, grazie alla diffusione di nuove tecnologie, impone una profonda trasformazione dei meccanismi attraverso cui le imprese hanno storicamente prodotto valore, innovazione e benessere.
Oggi per le aziende italiane, piccole e grandi, si aprono nuove opportunità da cogliere tanto sul fronte dell’efficienza dei processi, della riduzione dei costi e del miglioramento della produttività, quanto in termini di ripensamento dei prodotti e di cambiamento nei modelli di business. Naturalmente, come per ogni rivoluzione tecnologica, bisognerà essere in grado di rinnovarsi e di innovare: la quarta rivoluzione industriale rappresenta sia una minaccia che un’opportunità.
Era dunque necessaria una policy in grado di stimolare virtuosi processi innovativi a livello sistemico, destinata all’intero tessuto produttivo senza distinzioni di settore, dimensione, localizzazione o forma giuridica. Infine, il piano si basa su misure automatiche, immediatamente operative e prevalentemente di natura fiscale, caratteristica che lo differenzia da quanto fatto nel passato.
Quale impegno chiede il governo alle imprese su Industria 4.0?
Il piano è stato ideato per le imprese e mette a loro disposizione strumenti che ne favoriscano la crescita competitiva. A supporto della sua riuscita si è avviato un processo di dialogo con le parti interessate e di diffusione dei contenuti attraverso un roadshow sul territorio e un piano di comunicazione delle misure adottate. Naturalmente l’esito e la buona riuscita di questa policy dipendono dalla misura in cui gli imprenditori vorranno fare ricorso agli strumenti messi loro a disposizione.
Gli imprenditori devono quindi dare il loro contributo, facendosi parte attiva della quarta rivoluzione industriale.
Come risponde a chi sostiene che l’impostazione del piano è legata a una visione di dirigismo economico?
I principi a cui è ispirato il piano sono l’esatto contrario di una politica dirigista. Non sono previste assegnazioni discrezionali di fondi da parte delle burocrazie ministeriali, ma misure automatiche; non c’è una selezione a tavolino di settori da premiare o di tecnologie da favorire, ma si interviene in una logica di totale neutralità.
Il piano non si basa su linee strategiche che ambiscono a delineare un sistema produttivo italiano del futuro, ma offre a tutti coloro che intendono coglierla una strumentazione a supporto di processi innovativi e di trasformazione in chiave 4.0.
Oltre alle misure per favorire gli investimenti privati, il piano intende rafforzare il dialogo con la scuola. In che modo?
La quarta rivoluzione modifica radicalmente il mercato del lavoro, genera nuovi mestieri e ne fa sparire altri: è dunque necessario avviare da subito percorsi formativi virtuosi che creino le competenze necessarie a governare fin d’ora il processo di trasformazione. Una delle direttrici strategiche del piano prevede la diffusione di una cultura 4.0 lungo l’intero ciclo formativo, dalla scuola all’università, dagli istituti tecnici superiori ai corsi di dottorato.
Le misure per l’industria si innestano in un quadro di complessiva incertezza a livello internazionale. Messa sotto accusa la globalizzazione, torna il protezionismo commerciale e si parla sempre più di difesa degli interessi nazionali. Quali gli effetti sul lungo periodo?
La tutela degli interessi nazionali è l’obiettivo naturale di ogni governo, ovviamente. Il punto è come tutelare al meglio gli interessi nazionali avendo a mente anche il loro quadro di insieme e non il singolo “obiettivo”. La globalizzazione ha avuto effetti positivi: ha fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di esseri umani, ha favorito la diffusione di diritti e facilitato l’osmosi culturale.
La globalizzazione tuttavia ha anche prodotto squilibri e, per quanto riguarda il commercio internazionale, la distribuzione della ricchezza creata non è stata simmetrica tra i soggetti della comunità internazionale e all’interno delle singole realtà, ad iniziare dall’Unione europea e dal nostro Paese. Se nascondessimo a noi stessi e ai nostri cittadini questi squilibri non faremmo altro che alimentare le spinte protezioniste. Tuttavia, se sposiamo le logiche del protezionismo corriamo il rischio di annullare gli effetti positivi che il commercio internazionale ha prodotto in questo ventennio.
In sintesi, l’alternativa non è tra protezionismo e commercio internazionale, ma tra globalizzazione senza regole e commercio in un quadro di regole eque e condivise.
Quale strategia – politica ed economica – deve adottare l’Italia in tale contesto?
Parto da un dato concreto: nel 2015 le esportazioni italiane hanno totalizzato più di 412 miliardi di euro, con un contributo alla formazione del Pil intorno al 30%. Nel periodo gennaio-novembre 2016 le esportazioni italiane hanno raggiunto i 380,8 miliardi con un saldo positivo dell’interscambio pari a 45,8 miliardi.
L’unica strategia possibile è quella di non disperdere questo capitale di crescita e occupazione legato alle nostre esportazioni che, al contrario, dobbiamo consolidare. Tutto questo senza dimenticare quanto appena detto: che gli squilibri ci sono e vanno corretti. Da un lato, dobbiamo raggiungere il potenziale inespresso delle nostre esportazioni favorendo competenze e innovazione per consentire alle nostre aziende di competere sul mercato internazionale. Dall’altro, dobbiamo fare in modo che il commercio si svolga in un quadro di regole condivise.
Da questo discendono due linee di azione di cui la Commissione europea, che ha la competenza esclusiva in materia di commercio internazionale, si deve fare interprete: contribuire al consolidamento del quadro di regole comuni; dotarsi degli strumenti per fare in modo che queste regole vengano rispettate.
Sono due delle battaglie che l’Italia ha intrapreso a Bruxelles per contrastare il dumping, anche sociale e ambientale, e spingere l’Ue a dotarsi di strumenti di difesa commerciali efficienti.
Che valore può assumere un convegno dedicato a Industria 4.0 per la città di Napoli e il Mezzogiorno in generale?
Il 2017 è un anno chiave per il rilancio degli investimenti. Se questo è vero in generale per l’Italia, assume una rilevanza ancor più significativa per il Mezzogiorno. Stiamo entrando nel pieno della nuova fase di programmazione europea che dovrà dare nuovo impulso anche alla domanda pubblica. Con i Patti per il Sud e il Masterplan, il governo ha colto la sfida di una rinnovata attenzione e centralità del Mezzogiorno.
Adesso occorre accelerare anche sul fronte degli investimenti privati: a dicembre abbiamo presentato il nuovo modello dei Contratti di sviluppo, lo strumento che sostiene gli investimenti strategici e innovativi di grandi dimensioni, una leva per la modernizzazione del tessuto industriale, in coerenza con quanto disposto dal piano Industria 4.0. In quell’occasione sono stati sottoscritti dieci nuovi contratti, la metà dei quali con imprese campane: la regione è la prima in Italia per investimenti complessivi, con cinque nuovi contratti che porteranno investimenti per circa 180 milioni e oltre 2.400 nuovi occupati.
È un primo segnale importante a cui occorre assicurare continuità, anche attraverso occasioni di confronto con il tessuto imprenditoriale locale.