
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un dibattito sull’intelligenza artificiale che oscilla sempre più tra entusiasmo incondizionato e timore irrazionale. Mentre ci perdiamo dietro alla teoria e agli estremismi, rischiamo di non accorgerci della una nuova generazione di sistemi, l’Agentic AI, che sta entrando nei processi operativi delle aziende in modo molto diverso dall’AI che ci siamo abituati a conoscere negli ultimi due o tre anni.
L’Agentic AI non si limita a riassumere testi e a risponde alle domande che prima avremmo posto alla ricerca di Google, va oltre, perché è in grado di svolgere autonomamente una parte concreta delle attività aziendali: analizza dati, prende decisioni, utilizza strumenti software, esegue passaggi tecnici e, solo se necessario, ricorre all’intervento umano. Comprendere quali opportunità questi strumenti ad alto impatto aprano per le aziende, anche di piccole e medie dimensioni, è urgente e indispensabile per qualunque organizzazione.
L’Agentic AI agisce in relazione a un obiettivo e opera secondo una struttura molto precisa: raccoglie informazioni, le interpreta, sceglie un’azione e la porta a termine attraversando più fasi. È una differenza sostanziale rispetto ai modelli conversazionali diffusi negli ultimi anni, come per esempio ChatGPT o Perplexity o Gemini. Per funzionare, l’Agentic AI richiede alle aziende un livello di ordine e rigore molto più elevato di quello necessario per utilizzare un chatbot.
Molte imprese hanno sperimentato l’AI generativa come strumento creativo o di supporto, senza integrarla nei flussi di lavoro, spesso partendo da una spinta dal basso, cioè dall’adozione di strumenti più o meno sofisticati da parte di singoli collaboratori che avevano interesse a semplificare o velocizzare il proprio lavoro. E apparentemente ha funzionato, ma se guardiamo a distanza di uno o due anni, la maggior parte di quelle sperimentazioni è rimasta confinata a esperienze singole e ha portato a risultati limitati, tanto che sono sempre di più coloro che affermano che l’AI sia una bolla e che complica la vita delle aziende invece di semplificarla.
Il motivo è che non è sufficiente aggiungere una tecnologia, occorre ripensare la struttura in cui la tecnologia opera per ottenere davvero risultati tangibili e l’Agentic AI ci mette di fronte a questa dura verità. L’Agente, infatti, può lavorare solo se i passaggi sono chiari e privi di contraddizioni. Nelle aziende, però, gran parte delle attività è distribuita tra funzioni che usano sistemi differenti, archiviano dati in formati non uniformi o in contenitori diversi e non comunicanti e basano spesso le decisioni su informazioni non strutturate. Quando un agente AI attraversa questo paesaggio, incontra dati obsoleti, istruzioni incoerenti e flussi che dipendono da prassi informali. Il risultato è un’amplificazione delle difficoltà, più che una ottimizzazione del lavoro. Da questo punto di vista potremmo dire che l’Agentic AI ci costringe a comprendere come l’azienda prende le decisioni e come le dovrebbe prendere. Insomma, svela tutte le magagne delle nostre organizzazioni, di qualunque dimensione siano.
Questo avviene per una questione squisitamente tecnica: i sistemi di AI costruiscono il modello interno dell’azienda basandosi sui suoi contenuti, sui metadati, sui documenti interni e sulle informazioni pubbliche disponibili online. Se questo patrimonio è incompleto o disordinato, l’agente produce decisioni imprecise. È un limite che diventa particolarmente rilevante per esempio quando un agente deve svolgere funzioni commerciali, di assistenza o di analisi, perché le sue scelte dipendono dalla qualità della rappresentazione digitale dell’organizzazione. Se il modello che descrive l’azienda è lacunoso, anche gli agenti che dovrebbero operare per suo conto lo diventano. Il problema riguarda la stragrande maggioranza delle PMI italiane. Le aziende più lungimiranti stanno correndo ai ripari, attraverso la creazione di strutture dedicate alla progettazione e alla gestione degli agenti, che hanno il compito di definire criteri comuni: quali dati usare, come validarli, come misurare l’accuratezza delle azioni, come gestire le eccezioni.
Il lavoro assomiglia molto a quello di un reparto HR che analizza la popolazione aziendale e definisce l’organigramma, mettendo a punto per ciascuna persona ruolo e job description. E così scoprono che quello che fino a poco tempo fa era sembrato marginale deve diventare centrale. Anzi, strategico. Tra i fondamentali, infatti, possiamo annoverare l’aggiornamento delle repository interne e uniformare la documentazione tecnica; rivedere la struttura dei contenuti dei siti e curare più che mai l’immagine esterna, attraverso contenuti pubblicati da media autorevoli e presenti nei database pubblici. Di fronte a questo scenario e al gravoso lavoro che impone, in molte organizzazioni, la domanda sorge spontanea: ne vale la pena? La risposta, purtroppo, è una sola: non c’è alternativa. Chi non affronterà questo processo sarà destinato al declino, nemmeno troppo lento, e all’oblio.
Nota sull’autore:

RAFFAELE BIFULCO
Raffaele Bifulco è co-fondatore e managing director di NEWU, soft infrastructure consultancy. Laureato in Estetica e con un master in Management e marketing presso la Luiss Business School, Bifulco ha iniziato la sua carriera nell’industria culturale come communication specialist del Museo MAXXI di Roma. Con NEWU e nel suo precedente ruolo esecutivo nell’industria dei media, ha lavorato per clienti come Google, Prada, Sky, Amazon, Netflix, Ferrero, Samsung e Spotify, guidando sia progetti di comunicazione a livello globale che team dedicati.
Collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Nuova Accademia di Belle Arti, tenendo corsi di marketing, comunicazione e project management. Inoltre, è mentor per il programma di accelerazione startup dell’Università Bocconi, Bocconi 4 Innovation.

