Davide Oldani, chef milanese, classe 1969. Inventore della “cucina pop” con una stella Michelin. Ha studiato e lavorato presso i più grandi cuochi del mondo, da Gualtiero Marchesi ad Albert Roux, da Alain Ducasse a Pierre Hermé per poi aprire il suo ristorante di successo, D’O, a Cornaredo nella provincia di Milano.
Lei che è stato uno degli Ambasciatori di Expo 2015 ci può dire cosa rende speciale la cucina italiana nel mondo, qual è il nostro ingrediente segreto?
Che oltre che lavorare con i prodotti, con la terra e con la tradizione, lavoriamo col cuore.
Quindi la passione?
Esatto.
Ci sono regole ferree nella sua cucina che non possono essere trasgredite?
Sì. L’etica, il rispetto dei colleghi, il rispetto della materia prima, degli ospiti, delle stagioni. La correttezza di quello che è il nostro mestiere.
Quanto è importante il proprio team per il successo di un’attività?
Le risorse umane credo siano il 95% della riuscita del nostro lavoro. Ecco perché bisogna dedicare loro del tempo, dare l’esempio, spiegar le cose. Occorre seguire i ragazzi.
Quindi la squadra vince.
Proprio così.
La sua cucina è piena di cucchiai per assaggiare tutto. Cosa cerca in un piatto? Cosa non deve mai mancare perché un piatto sia perfetto?
Deve essere equilibrato negli ingredienti, con il giusto mix di contrasti e il giusto compromesso tra caldo e freddo, tenero e croccante, dolce e salato.
Se il piatto è calibrato in maniera corretta, con questi ingredienti, per me raggiunge la perfezione e andando a toccare tutte le parti del palato si ha la possibilità di apprezzarlo di più.
E la bellezza, quanto conta in cucina?
La bellezza è l’estetica che dipende dal colore della stagione.
Qualcuno definisce la bellezza secondo i colori che vede nel piatto: se vede un piatto spento è meno bello rispetto ad un piatto più caloroso, con più colore. Invece in autunno o in inverno i piatti sono un po’ più smorti, ma danno comunque il senso della bellezza perché rispecchiano la stagione.
Nel suo locale vicino Milano c’è un’area dedicata alla ricerca e sviluppo, proprio come nelle nostre imprese più virtuose e lungimiranti. Nel suo mestiere quanto contano ricerca e innovazione?
Sono importanti perché ci aiutano a crescere e ad andare nel futuro, a garantirci qualcosa. Senza la tradizione non si ha innovazione e senza l’innovazione non si ha futuro.
Quale piatto di un altro chef avrebbe voluto firmare lei?
Per fare un paio di nomi direi “La zuppa del presidente” di Paul Bocuse o il “Raviolo aperto” di Gualtiero Marchesi.
Considerando anche il successo della sua “Cipolla caramellata” possiamo dire che nel suo caso le cipolle non fanno piangere…
No, infatti. Fanno sorridere. Esattamente l’opposto, andiamo contro i detti popolari.
Prossime sfide?
Stiamo iniziando all’estero con un po’ di progetti appena partiti ma ce ne saranno anche degli altri, in Cina e in diversi paesi con il coinvolgimento dei miei ragazzi nella mia attività. Seguiamo molto anche la parte delle guide di cucina.
Insomma ha in mente di portare l’italianità in giro per il mondo per farci fare bella figura?
C’è questo progetto.
Giocando al “se fosse”, se l’Italia fosse un piatto?
Sarebbe il buono di un piatto.
Quindi non un piatto in particolare?
No, semplicemente il “buono”.