Imprese in buona salute pronte a cogliere le opportunità della digitalizzazione. Le previsioni di Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria
All’assemblea pubblica di Farmindustria di giugno avete diffuso dati molto incoraggianti sulla produzione e l’occupazione nelle imprese del settore farmaceutico. Si può dunque dire che la crisi è ormai superata?
Sì e no. Il nostro è un settore che da un punto di vista produttivo ha investito molto nel Paese. Un forte contributo al Pil è venuto, infatti, dall’andamento della produzione e dell’export. I dati della produzione industriale italiana degli ultimi cinque o sei anni hanno un segno negativo, mentre quelli dell’industria farmaceutica hanno registrato un +13%. Questo dà la misura di come il nostro sia un settore in salute. Ma viviamo anche di un mercato interno. Nel nostro caso è lo Stato che, in larga parte, acquista i farmaci e ne stabilisce le regole. La spesa farmaceutica è sottoposta a un rigido controllo: ad inizio anno viene definito un tetto di spesa, che è stato via via ridotto fino al 2013.
Oggi la soglia complessiva tra spesa ospedaliera e territoriale è il 14,85% della spesa sanitaria, dieci anni fa era il 16,4%. E non si considera che i farmaci fanno risparmiare su altre voci di spesa: fino a mille euro se si evita un giorno di ospedalizzazione, pari a quattro anni di assistenza farmaceutica per ogni cittadino, considerando che la spesa annua procapite pubblica è di circa 288 euro. Sarebbe giusto allora reinvestire quello che si risparmia, nel settore che ha reso possibile la minor spesa.
Nel suo discorso ha riconosciuto alle istituzioni di aver mantenuto le promesse fatte, in che modo?
Le istituzioni sono andate incontro all’industria farmaceutica in due modi. Innanzitutto permettendo una stabilità mai avuta in precedenza. Anzi, nei dieci anni prima degli attuali governi, ci sono state 44 manovre di contenimento della spesa farmaceutica (quindi quattro all’anno) che non permettevano alle aziende di mettere a punto un piano industriale.
A partire dal 2013, però, il ministro Lorenzin ha agevolato le condizioni di base per la crescita industriale con un effetto positivo – perché restituiamo allo Stato in termini di Pil più di quello che serve per pagare la spesa farmaceutica – nell’ultimo anno. Con una politica pro-innovation è riuscita a trovare due finanziamenti importanti di 500 milioni ciascuno, per i farmaci innovativi e per quelli oncologici. Questo patto è stato dunque rispettato, manca l’ultimo miglio che è la definizione della nuova governance.
Quali sono le richieste dell’industria farmaceutica?
Che ci sia una attenzione continua verso l’innovazione perché l’innovazione è vita.
La mortalità negli ultimi dieci anni si è ridotta del 23% e l’aspettativa di vita aumenta. Dal 1950 ogni quattro mesi di vita ne guadagniamo uno. L’innovazione deve essere pensata come qualcosa di importante e non negata perché qualcuno non vuole remunerarla.
Altra cosa fondamentale è la tutela della proprietà intellettuale: per sviluppare un farmaco nuovo ci vogliono 10/12 anni e 2,5 miliardi di euro di investimento. Se non ci fosse la tutela della proprietà intellettuale nessuno farebbe più ricerca e saremmo forse fermi alla penicillina.
Bisogna capire che è importante la sostenibilità del sistema sanitario nazionale, ma anche quella delle imprese farmaceutiche. Se chiudessero, lasciassero il Paese e delocalizzassero, si aggiungerebbe un problema al problema.
L’Italia è un hub internazionale per la produzione di farmaci e vaccini, seconda in Europa soltanto alla Germania. Quali sono le caratteristiche vincenti delle nostre imprese?
Abbiamo una caratteristica unica in Europa: un bilanciamento tra aziende a capitale estero, che rappresentano il 60%, e quelle a capitale italiano, che rappresentano il 40%.
Queste sono riuscite a crescere e sopravvivere bene in virtù del fatto che hanno sviluppato una forte presenza internazionale – non solo europea – e sono ormai a tutti gli effetti delle multinazionali a capitale italiano. E ciò vale anche per le Pmi che stanno cominciando a guardare all’estero con progetti di ricerca o aprendo uffici che possano garantirne la presenza in altri paesi.
Gli addetti nelle aziende farmaceutiche sono 64mila e altri 66mila sono nell’indotto. Con una filiera di eccellenza che concorre a moltiplicare il valore generato dalle imprese del farmaco. L’Italia è leader anche nell’industria che produce le macchine per le imprese farmaceutiche, utilizzate in tutto il mondo.
La digitalizzazione è un processo ineludibile in tutti i settori e dunque anche in quello farmaceutico. Come condiziona e ridefinisce la realtà delle vostre imprese associate?
La digitalizzazione è arrivata nella ricerca. Le nostre aziende non si limitano più a produrre farmaci, ma offrono soluzioni integrate. Il farmaco si fonde con la diagnostica e con la genomica che ci stanno dando delle informazioni straordinarie per personalizzare ancora di più le cure: avere a disposizione tutti questi dati ci consente di realizzare terapie mirate.
La digitalizzazione ha portato alla nascita di Pillole intelligenti in grado di interagire con il corpo o rilasciare il medicinale solo quando serve. Non a caso collaboriamo con Ibm, che sta lavorando su una banca dati di 700mila articoli scientifici. L’intelligenza artificiale offre una possibilità straordinaria di cui nessuna mente umana sarebbe capace. Per quanto riguarda la produzione, siamo uno dei settori più all’avanguardia in merito a Industria 4.0. Ci sono alcune aziende che hanno sviluppato soluzioni produttive che non hanno eguali nel mondo. Adesso siamo secondi per produzione alla Germania, nel giro di un anno o due saremo primi perché la nostra produttività procapite è già superiore. E grazie alla digitalizzazione stiamo ottenendo dei risultati straordinari.
Tutto cambia molto velocemente e quindi anche i profili professionali che vengono richiesti dal mercato. Come ci si può far trovare pronti a questa sfida?
Credo sia importante non avere pregiudizi. Spesso si sente dire che il 4.0 cambierà tutto e avrà come conseguenza una riduzione della presenza umana nelle imprese. Mi sento di dare delle rassicurazioni: stiamo riorganizzando i profili professionali. Si tratterà di riallocare le risorse in modo diverso e se andiamo a guardare le industrie più evolute dove la tecnologia è già una realtà, non hanno affatto ridotto il numero di addetti, ma lo hanno aumentato. Ovviamente servono competenze diverse. Quindi dovremo puntare molto sulle competenze di chi attualmente lavora nelle nostre imprese, soprattutto dei giovani.
Fin da oggi siamo pronti a contribuire alla formazione dei professionisti di domani. E lo dimostrano le firme del protocollo “Garanzia Giovani”, con il ministero del Lavoro e di un importante progetto con il Miur sull’alternanza scuola-lavoro. Vogliamo portare i giovani nelle nostre imprese per prepararli alla nuova idea di industria, che non è più quella di ieri. L’industria va avanti. Oggi produce farmaci intelligenti e tecnologici per cui serve una formazione specifica e competenze diverse. Sempre più si parlerà di anticorpi monoclonali e digitalizzazione del genoma. I giovani – che sono il nostro futuro – daranno vita alle imprese del futuro.