A quindici chilometri da Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, sta per nascere un quartiere “italiano”.
Italiano non per le persone che lo abiteranno, ma per quelle che lo hanno progettato e per la filiera di imprese che lo realizzerà.
Si chiama Kintélé e a raccontarci la sua storia è Fiorella Peraro, urbanista e presidente de “Il Quadrato”, la società di progettazione che ha curato il lavoro.
Voi siete di Padova. Come siete arrivati in Congo?
L’opportunità di Kintélé è nata un po’ per caso, ma va detto che già dai primi anni Duemila avevamo cominciato a strutturarci per poter esplorare i mercati esteri. In quel periodo, infatti, benché l’edilizia “tirasse” ancora, i progetti di ampio respiro erano sempre più rari.
I primi incarichi li abbiamo ottenuti in Egitto e riguardavano la progettazione di alcuni villaggi turistici sul Mar Rosso; una buona palestra perché bisognava imparare a coniugare funzioni e settori commerciali differenti.
Poi, mentre stavamo vagliando alcuni progetti in Uganda, fummo chiamati a presentare una proposta per un progetto di ricostruzione a Brazzaville. Era il 2012 e il 4 marzo di quell’anno era scoppiato un deposito di armi all’interno di una caserma in pieno centro urbano: centoquaranta morti, oltre duecento feriti e più di cinquemila abitazioni distrutte. Il fumo di quell’esplosione si vide anche da Kinshasa, sull’altra sponda del fiume Congo.
Primo obiettivo, dunque, ricostruire. Il ministro congolese delle Grandi Opere, Jean Jacques Bouya, che pochi giorni prima era stato in Italia e aveva visitato un’esposizione di progetti per strutture di emergenza per la Libia alla quale avevamo partecipato, si ricordò di questo e si mise in contatto con la nostra Ambasciata.
E poi?
Invece di procedere singolarmente, guidati dalla nostra Ambasciata, si preferì organizzare una filiera di imprese che potesse consegnare il progetto “chiavi in mano”.
Nella proposta inserimmo di nostra iniziativa anche una prima valutazione dei costi e a ottobre illustrammo il Masterplan sotto l’egida di Cesare Trevisani, all’epoca vice presidente di Confindustria; la sorpresa fu che invece di assegnarci la ricostruzione del quartiere di Mpila, dove era avvenuta l’esplosione, il progetto piacque talmente tanto che ci venne proposto di lavorare su un’altra area poco fuori dalla capitale.
Più di cinquecento ettari di terreno completamente liberi, dove far sorgere una cittadella per 30mila abitanti: il sogno di ogni progettista.
Quali complessità avete affrontato?
È stato difficile trovare tutte le informazioni necessarie a una corretta analisi territoriale. Solo in un momento successivo scoprimmo, per esempio, che Kintélé sorgerà nei pressi dell’area in cui è previsto il ponte stradale e ferroviario sul fiume Congo, il primo su questo lunghissimo fiume-frontiera, molto importante sia dal punto di vista politico che commerciale perché metterà insieme, via terra, due pezzi di Africa: l’Est e l’Ovest del continente.
Non solo. Nei dintorni di questa futura dogana, zona di espansione della capitale Brazzaville, era già cominciata la costruzione di un’ampia zona industriale, si stavano completando lo stadio intercontinentale e importanti modifiche alla viabilità affidate ai cinesi; era già in corso la costruzione di una grande università da parte di una società brasiliana, così come di un nuovo insediamento residenziale in prefabbricati, carente di servizi, realizzato da una società israeliana per altre 20mila persone. Le potenzialità e i bisogni dell’area, dunque, erano tanti e complessi e non è stato facile tener conto di tutto questo.
Dal punto di vista operativo i lavori per la prima tranche, la cosiddetta “Mini Kintélé”, del valore complessivo di 100 milioni di euro sono cominciati nel settembre del 2015. Ad imprimere un’accelerazione è stato senza dubbio lo scambio di visite istituzionali fra governo italiano e congolese, che ha portato alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa con la definizione di Sace e Simest come advisor nella ricerca di finanziatori.
Quali sono le peculiarità del progetto?
Sin dall’inizio il governo congolese ci ha chiesto di escludere i prefabbricati, tutto avrebbe dovuto essere fatto con materiali tradizionali. Il progetto si distingue per una cintura verde, larga 200 metri, concepita con il duplice scopo di prevenire l’erosione del terreno ed evitare l’insediamento di complessi “informali”. L’area è circondata da terreni agricoli che tali devono restare; uno dei problemi più critici delle città africane è proprio lo sviluppo incontrollato delle periferie.
Abbiamo curato con attenzione anche il trasporto pubblico, suggerendo di inserire una monorotaia sopraelevata, che si adatta meglio all’orografia dell’area e questa novità è piaciuta parecchio.
Perché, secondo lei, per Kintélé è stato preferito un progetto italiano?
Posso essere sincera? Perché era più bello. Quello che ha colpito, secondo noi, è stata la sua armonia. Vede, i cinesi presentano bellissimi rendering, io nella fase iniziale mi ostino sempre a presentare un concept fatto a mano. Credo che questo attragga l’interlocutore, che attraverso il disegno coglie come tutti gli elementi siano stati presi in considerazione. Come diceva lo scultore romeno Constantin Brancusi, “la semplicità è la complessità risolta”.
Italiani che fanno cose belle, dunque.
È così. Naturalmente alla base ci deve essere la preparazione tecnica. Per il resto il messaggio della bellezza è legato alla nostra storia. Apparteniamo a un Paese che per lungo tempo è stato diviso, dove ogni città era una capitale e come tale andava “vestita” sotto il profilo architettonico perché doveva esprimere un ruolo e un potere.
Avete seguito anche la formazione del personale locale?
Esatto, proprio il mese scorso abbiamo collaborato con l’Enaip (Ente nazionale Acli di formazione professionale, ndr) alla formazione di 12 tecnici dei ministeri congolesi incaricati di seguire la realizzazione di Kintélé. In quella occasione ci hanno chiesto anche di essere messi in contatto con la nostra Protezione Civile.
Conoscevano la storia dell’Aquila ed erano informati anche del terremoto di Amatrice. Da loro non esiste nulla di simile e quando è scoppiato il deposito hanno dovuto attendere otto ore per i primi soccorsi dal Marocco. Per questo motivo guardano molto all’esperienza italiana in questo campo e apprezzano la nostra grande capacità di coordinamento in situazioni di emergenza.