Il piano del governo punta a rafforzare massicciamente gli investimenti, per migliorare il profilo competitivo del paese
Con Industria 4.0 il Governo torna dopo lungo tempo a elaborare un piano organico di politica industriale. L’obiettivo primario è il recupero della produttività. Il mezzo con cui lo persegue è l’incremento degli investimenti industriali qualificanti.
La policy nasce dal presupposto che l’obsolescenza dei beni strumentali delle imprese italiane ha raggiunto livelli mai sperimentati in precedenza e in controtendenza rispetto a quanto avviene in altri paesi a forte connotazione manifatturiera: prima della crisi del 2011 gli investimenti privati in Italia erano in linea con quelli della Germania, oggi non raggiungono neanche la metà di quelli tedeschi.
Una volta sopraggiunta la crisi, la prima spesa a essere stata tagliata è stata quella per gli investimenti e i pochi realizzati sono stati a basso contenuto innovativo.
Tuttavia esiste anche un problema ulteriore che riguarda non solo la quantità degli investimenti dopo la crisi, ma anche la loro qualità prima della crisi. Per troppo tempo nel nostro Paese l’allocazione degli investimenti è andata a sostegno di progetti spesso non in grado di assicurare adeguati ritorni in termini di efficienza e produttività. La nostra industria, laddove non tentata dall’immobiliare, dalla finanza e da qualche rendita di posizione, ha continuato a investire molto nell’estensione della capacità produttiva e poco nella necessaria intensificazione tecnologica dei processi, ritardando gli investimenti nel digitale e nei nuovi modelli di business.
Raramente si associa la nostra più che ventennale bassa performance di produttività a un problema di “misallocazione” del capitale. Eppure la montagna di 300 miliardi di Npl (non performing loans, ndr) e crediti deteriorati raggiunti dal nostro sistema bancario è anche evidente conseguenza di montagne di scelte allocative sbagliate, per non parlare di rapporti banca-impresa orientati più alle relazioni che alla meritocrazia del credito.
La crisi del 2008 ha fatto emergere l’insostenibilità della situazione: la produzione industriale è calata vistosamente con una conseguente contrazione della ricchezza nazionale e dell’occupazione, ancora oggi non del tutto recuperate. La crisi ha infine esasperato la polarizzazione tra le imprese, con divari sempre maggiori tra quelle di successo e quelle che stentano a tenere il passo. Se l’Italia continua, nonostante tutto, a essere la seconda economia manifatturiera in Europa e la quinta al mondo, è grazie alla competitività e alla proiezione internazionale di una minoranza del suo capitalismo, ovvero delle poche aziende che hanno saputo investire, innovare e intercettare la crescita mondiale attraverso una maggiore proiezione internazionale.
Resta il fatto che la maggior parte delle nostre pmi, spina dorsale del tessuto produttivo nazionale, presenta un ritardo strutturale non solo nell’utilizzo delle tecnologie 4.0 più innovative (Ict sofisticato per sistemi di produzione cyber fisici, tecnologie addittive, robotica, ecc.), ma anche in quelle tecnologie Ict più basiche (Erp, cloud, e-commerce), anch’esse capaci di incrementare produttività e competitività.
Ora la quarta rivoluzione industriale – ovvero la dilagante digitalizzazione dei processi produttivi, resa possibile da una connettività sempre più diffusa e da tecnologie sempre meno costose per produrre con più qualità, flessibilità e velocità – ci dà l’opportunità di recuperare il terreno perduto: favorendo massicciamente gli investimenti, soprattutto quelli in ricerca, sviluppo, innovazione e competenze.
Il Piano Industria 4.0 punta a rafforzare proprio questi fattori, abilitando il miglioramento del profilo competitivo del nostro Paese. La filosofia di fondo è quella di un disegno di politica industriale organico, basato su incentivi automatici, in grado di orientare e sostenere le scelte allocative private verso gli investimenti a maggior contenuto di innovazione e conoscenza.
La terapia d’urto, a partire dalla Legge di Bilancio 2017, consta dell’introduzione o del rafforzamento di vari strumenti: il super e l’iperammortamento per agevolare il rinnovo del parco macchine e in particolare di quelle in grado di abilitare la trasformazione tecnologica e digitale delle produzioni; il Patent Box e il credito d’imposta sulle spese in ricerca e sviluppo per valorizzare gli asset intangibili e l’innovazione di prodotto e di processo; le politiche a favore dell’ecosistema delle startup e delle pmi innovative. Oggi, grazie alle misure citate, l’Italia è fra i paesi più attrattivi del mondo per le politiche fiscali a favore degli investimenti in digitale e in innovazione. Lo attesta quest’anno la ricerca tedesca Pwc-Zew (Università di Mannheim) che ha posto l’Italia al secondo posto al mondo per un fisco pro-innovazione. Fino a un anno fa eravamo ventesimi.
Il prossimo passo è trovare nuove soluzioni per assicurare che gli investimenti si traducano in un incremento di produttività. Affinché ciò avvenga, per sfruttare appieno il potenziale della quarta rivoluzione industriale, è necessario accompagnare l’investimento in capitale strumentale con quello in capitale umano.
Novità in questo senso sono attese dal bando di prossima emanazione sui Competence Center, strutture che potenzieranno i servizi di trasferimento tecnologico favorendo il ripensamento della partnership tra grande industria, pmi, università e ricerca, e dal possibile inserimento, nella prossima Legge di Bilancio, di misure a favore dell’investimento nella formazione continua, nel training on the job, nella formazione professionalizzante affinché anche la risorsa più importante delle aziende – la forza lavoro – sia pronta a sposare il paradigma del 4.0.