A Portonovo il dibattito su idee e soluzioni per il futuro delle pmi. Ecco i protagonisti
Visionari e collaborativi
Oggi la priorità è costruire le competenze e le professionalità del futuro. Ne parliamo con Federico Visconti, Rettore LIUC Università Cattaneo
Innovazione: come si applica nella scelta ed organizzazione del capitale umano?
Il problema è che gli ambiti in cui l’innovazione si sviluppa (verrebbe da dire si dipana) sono sempre più estesi, incerti, paludosi.
Un esempio da copertina: la quarta rivoluzione industriale. Che il mondo stia cambiando è sotto gli occhi di tutti, che i modelli di prototipazione e di produzione stiano evolvendo è fuori di dubbio. Attenti, però, agli slogan: quello che conta è l’impatto che Industria 4.0 avrà, non in modo generico, ma specifico sulla tal filiera, su tal settore, sulla tale impresa. Ogni azienda fa storia a sé, bisogna attrezzarsi a livello di struttura interna e un uomo tanto forte quanto solo non basta.
Serve un’organizzazione moderna, innervata di nuove competenze e basata su meccanismi diversi dal passato. Se non è facile identificare le professionalità di cui l’azienda necessita, è ancor più difficile selezionare le persone e creare le condizioni organizzative affinché generino valore. È una sfida di change management, che motiva alcuni e deprime altri. Non ci sono alternative.
Come deve cambiare la formazione per i giovani che ambiscono a lavorare in azienda?
C’è una sfida di contenuti, che devono essere in linea con le esigenze del mondo del lavoro. Non è facile. Un’attività di ricerca rigorosa e applicata, unitamente a una sana contaminazione fra istituzioni formative e sistema economico aiutano molto.
C’è poi una sfida di processi didattici, ma soprattutto di modelli educativi. L’università, unitamente alla scuola, ha sulle spalle una grande responsabilità verso i giovani, che prende forma lungo molteplici dimensioni: esporre al rischio, catapultare nel problem solving, allenare alla fatica, esercitare al pensiero critico, far sperimentare il lavoro, far capire che semina e raccolto non procedono di pari passo.
Servono percorsi e modelli formativi che esaltino la dimensione educativa ed esperienziale. Sui contenuti si può sempre recuperare. Nella mia esperienza, è sempre meno vero il contrario.
Quali le tre doti indispensabili all’imprenditore contemporaneo? E quali i tre “difetti” da correggere?
Per quanto riguarda le doti, la prima è una sana ambizione. I fattori di spinta di un imprenditore sono tanti e assumono sfumature diverse di caso in caso. Sottolineerei la passione, la dedizione, il coraggio del mestiere. Il senso di responsabilità che li anima e la prospettiva di lungo periodo a cui guardano. Serve una sorta di “ambizione 4.0”, che prenda forma attorno a progetti più complessi che in passato, che porti a crederci più di quanto non sia accaduto per anni.
La seconda è la capacità di visione. Oggi la priorità strategica è come costruire le formule imprenditoriali del futuro, quelle idealmente destinate a produrre risultati di valore da qui a cinque anni.
La terza dote è l’orientamento a collaborare. Provocatoriamente si potrebbe parlare di sharing entrepreneurship. Gli imprenditori sono sempre più sollecitati a interagire. Non solo all’interno della propria filiera o nell’ambito del settore di appartenenza, ma con una pluralità di stakeholder. Per fare un esempio: nella società della conoscenza, relazionarsi con centri di ricerca, con partner tecnologici, con università non rappresenta più un’opportunità, ma sta diventando una necessità, una condizione per competere con successo.
Per quanto riguarda i tre “difetti”, direi che il primo è la fatica nel prendere le distanze dal familismo, cioè da un’impostazione dei rapporti che, istintivamente più che deliberatamente, tende a privilegiare obiettivi e aspettative della proprietà rispetto alla competitività dell’impresa. Non c’è più spazio per processi di inserimento di membri della famiglia che prescindono dalle competenze; per meccanismi di remunerazione che non tengono conto delle responsabilità e dei risultati conseguiti; per difficoltà di convivenza tra generazioni o nell’ambito della stessa generazione.
Il secondo consiste nelle resistenze a metter mano al motore per scavare dentro le inefficienze e per cambiare la struttura esistente. Suonerà strano, ma numerose pmi esprimono ancora un potenziale di miglioramento gestionale tutt’altro che marginale. Guardare avanti significa, in primis, sollevare il coperchio della pentola.
Infine, la scarsa propensione a manovrare l’assetto del capitale. I vantaggi non mancano. Se il partner è valido, si acquisisce un prezioso contributo nell’ambito dei processi decisionali, si dispone di nuove risorse per la crescita, si coltiva la diversificazione del patrimonio familiare, si realizza la semplificazione della compagine proprietaria.
Come riconosce il vero leader?
Dalla tensione che esprime verso il buon management, nei suoi contenuti fondamentali: la dedizione, la professionalità, l’innovazione. È una tensione che mira allo sviluppo qualitativo dell’azienda, prima ancora che alla sua crescita dimensionale.
Il software protagonista
Serve una visione del 4.0 che integri big data E cloud. Ne è convinto Alberto Mattiello, Head of Future Thinking Project, J. Walter Thompson
Come stanno reagendo le pmi alle sollecitazioni di Industria 4.0?
La difficoltà deriva dal far diventare il software – Big Data, Cloud, IoT, AI, API e così via – il driver principale dello sviluppo produttivo, non un’appendice aggiuntiva alla catena fisica del valore. La produzione diverrà sempre più integrata: connettere nella filosofia produttiva flussi fisici e flussi informativi è il cambio di paradigma che viene richiesto da questa accelerazione tecnologica e solo poche pmi illuminate oggi hanno già iniziato a muoversi in questa direzione.
È un cambiamento radicale e ci vorranno più tempo e buoni esempi da seguire.
Si discute molto dell’impatto occupazionale. Dobbiamo preoccuparci oppure no?
Il punto centrale della trasformazione occupazionale è che le nuove applicazioni si stanno preparando ad amplificare, integrare e sostituire la capacità, non più solo manuale, ma cognitiva umana. Già oggi i sistemi più evoluti di Intelligenza artificiale possono scrivere un contratto, contestare una multa, analizzare gli esiti di una partnership o gestire un’emergenza logistica.
Nei prossimi anni diventerà tecnologicamente possibile ed economicamente conveniente automatizzare tutte le attività basate sulla gestione delle informazioni, con un impatto importante sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi.
Si stima che il 4.0 porterebbe un esubero di circa il 30% delle attuali risorse impiegate, ma allo stesso tempo, già oggi, c’è un 15% di risorse necessarie a questo cambiamento che non si stanno reperendo sul mercato.
Oggi dobbiamo preoccuparci soprattutto di quel 15% mancante. Bisogna istruire e valorizzare una nuova generazione di lavoratori, costruendo percorsi formativi e personali per dotarli di competenze in grado di adottare un approccio digitale.
Il gigantismo delle imprese tecnologiche come Google e Amazon, e la concentrazione in pochi soggetti della gestione dei dati, sono visti da più parti come nuovi monopoli. Qual è la sua opinione?
In questo momento aziende come Google, Amazon e (ex)startup come Uber e Airbnb sono da studiare per capire l’approccio strategico all’utilizzo dei dati.
Un esempio è l’Api economy (Application Programming Interface). Sembra un tema tecnologico, ma in realtà è un approccio alla base della costruzione dei business del futuro. Il nostro problema non è solo che molte aziende non stanno sfruttando i dati, ma il fatto che spesso non sanno nemmeno di possedere questo valore all’interno dei loro processi. Personalmente vedo quindi questi monopoli come una fase di passaggio. Bisogna partire da qui, dal capire e imparare ad implementare la nuova generazione di strategie di business. In questa rivoluzione c’è ancora tutto da fare.
Dal suo osservatorio negli Stati Uniti, cosa manca oggi nelle aziende manifatturiere italiane?
Partiamo da un presupposto: la tecnologia oggi non è solo più potente di quella del passato: è diversa. E, se la rivoluzione digitale sta avendo un impatto importante su numerosi settori, su nessuno è tanto dirompente come su quelli manifatturieri.
La risorsa principale dell’Italia rimane la capacità imprenditoriale e l’eccellenza nella produzione. Per sfruttare, però, le potenzialità di questo cambiamento è richiesta una nuova prospettiva non solo sul prodotto, ma anche sulla relazione che abbiamo con il mercato e sui processi interni della nostra azienda, fino al modello di business.
Le aziende hanno ancora troppo poca cultura digitale, spesso racchiusa nei reparti marketing. Tutto il tessuto va accompagnato in questa trasformazione, con una nuova consapevolezza: la tecnologia sta trasformando qualsiasi business, in qualunque settore. Che ce ne rendiamo conto o no.
Borsa e non solo
Dopo un’eccessiva dipendenza dalle banche, si amplia il panorama delle fonti di credito: Lo sostiene Fabrizio Pagani, Capo Segreteria tecnica del MEF
Pmi e pochi campioni nazionali. Questa la fotografia più ricorrente del sistema produttivo italiano. È ancora così?
È una fotografia che non cattura le evoluzioni in corso. Le nostre pmi hanno prodotti e mercati, come conferma un export in aumento, ma hanno bisogno di capitali e di governance per crescere. L’afflusso di risorse consente alle aziende di entrare in Borsa e di abbracciare una dimensione internazionale. I risultati raggiunti attraverso i Piani individuali di risparmio, introdotti dalla Legge di Bilancio 2017, ne sono la riprova. La raccolta fino ad ora ha superato i cinque miliardi di euro, mentre le pmi quotate sono cresciute del 16% sul 2016 nel listino Aim, che ha raggiunto il valore di un miliardo di euro.
Sono segnali di sviluppo importanti per una struttura produttiva a lungo tempo caratterizzata da un’eccessiva dipendenza dal credito bancario. Per aumentare ulteriormente l’impatto dei Pir sul tessuto imprenditoriale italiano, gli operatori devono trovare meccanismi adeguati per convogliare parte della liquidità raccolta tramite lo strumento verso aziende non quotate.
Con quali strumenti state supportando il processo di crescita delle pmi?
Oltre ai già citati Piani individuali di risparmio, attraverso il programma “Finanza per la Crescita” il Governo ha introdotto una serie di misure per accompagnare l’azienda nelle diverse fasi della sua vita. Il panorama delle fonti di credito ora è più ampio e include società di cartolarizzazione, fondi di credito, compagnie di assicurazione e operatori esteri. Le aziende non quotate possono finanziarsi con titoli di debito come i minibond, mentre l’ingresso sul mercato è favorito dall’Ace, l’Aiuto alla crescita economica, o l’utilizzo di particolari strumenti per la quotazione (ad esempio, azioni a voto multiplo o maggiorato).
Abbiamo sostenuto le spese per ricerca, sviluppo e innovazione, anche con il Patent Box, e incentivato gli investimenti in beni strumentali con il superammortamento e l’iperammortamento, che hanno contribuito significativamente a stimolare la produzione.
Gli investimenti da venture capital in Italia sono un fatto recente. Mancano le risorse oppure le imprese appetibili?
Nessuna delle due. Si tratta di supportare un mercato in crescita, mettendo a sistema risorse e incentivi con le aziende più innovative.
I poli di eccellenza sul nostro territorio stanno alimentando la nascita di imprese tecnologicamente molto avanzate, apprezzate sia in Italia che all’estero. Le stesse possono fare affidamento su un pacchetto competitivo a loro dedicato, che include semplificazioni e incentivi per l’avvio e lo sviluppo delle proprie attività. Al di là del tradizionale canale bancario esistono poi più fonti per le risorse: il crowdfunding o l’equity crowdfunding, i contributi messi a disposizione dal Fondo centrale di garanzia o da Invitalia e i fondi di venture capital.
Innovazione è stato il leitmotiv della presidenza Baban. Come si applica questo concetto alla finanza?
Il mix tra finanza e innovazione è al cuore del settore fintech, che sta rivoluzionando il mercato finanziario. Il tema assume rilievo crescente anche per il Governo, che da qualche mese ha attivato un confronto con regolatori, operatori di mercato e istituzionali al fine di individuare aree in cui agire per agevolare lo sviluppo del settore.
Questo è fondamentale per sostenere la crescita digitale di un mercato finanziario e per rendere l’Italia un terreno più attraente per le startup del settore, aprendo il Paese anche alle aziende che nei prossimi mesi si sposteranno da Londra.
Condividere le sfide
Oggi andiamo nelle aziende perché il successo dei loro progetti è anche il nostro, così Stefano Barrese, Responsabile Banca dei Territori Intesa Sanpaolo
Quella tra banca e impresa è da sempre una delle partnership strategiche più rilevanti. Come è cambiata dopo la crisi e in quali aspetti cambierà ancora?
La crisi ha trasformato il rapporto tra banca e impresa, superando quella visione di “banca-controparte”. Oggi siamo considerati a tutti gli effetti “partner” delle imprese. È infatti in corso una vera e propria rivoluzione culturale che ci vede impegnati a cogliere, anzi ad anticipare, tutti i segnali di cambiamento, senza trascurare il valore della relazione che anche nell’epoca delle tecnologie informatiche mantiene un valore fondamentale.
Una delle principali indicazioni alla nostra rete commerciale è quella di andare nelle aziende, “respirarne l’aria”, vivere i problemi e le opportunità dell’imprenditore e successivamente mettergli a disposizione competenze mirate, fargli percepire che il successo del suo progetto è anche il nostro successo e quello del territorio su cui opera.
Quest’approccio ci ha consentito di percepire al meglio la realtà economica di riferimento, di conoscere da vicino il valore dei progetti delle imprese. È questo che, anche nei momenti più bui della crisi, ci ha consentito di erogare credito a chi aveva validi progetti e che ci ha portato a erogare alle imprese, nel primo semestre 2017, 25 miliardi di finanziamenti per investimenti, con un trend in crescita rispetto ai 48 miliardi del 2016.
Stiamo inoltre lavorando sulle 7mila richieste di finanziamento già pervenute sul programma Industria 4.0. Il cambiamento è in corso e si avvarrà anche di piattaforme tecnologiche per rispondere alle nuove sollecitazioni con una partnership a 360°.
Cosa significa per un istituto di credito innovare?
Significa saper immaginare il futuro e avere la capacità e il coraggio di realizzarlo, ma anche creare nuove opportunità, risolvere problemi e bisogni esistenti in modo nuovo, suggerire percorsi che spesso i clienti non hanno il tempo o la possibilità di cogliere. Il tutto sfruttando le nuove tecnologie, ma anche un’evoluzione virtuosa della propria organizzazione, dei modelli di business e delle relazioni tra le persone.
Consideriamo l’esempio emblematico di Industria 4.0, che trasforma radicalmente i modelli manifatturieri grazie a sistemi produttivi intelligenti e interconnessi. La vera sfida e la vera rivoluzione consistono nel porre al centro di questi processi innovativi le persone, la loro creatività e la formazione di nuove competenze. Occorre quindi formare nuovo capitale umano che sappia essere protagonista del salto tecnologico.
Il nostro Gruppo è al fianco delle aziende clienti che intendono posizionarsi come leader del cambiamento e dell’innovazione. Abbiamo creato l’Innovation Center Intesa Sanpaolo, attivo nell’analisi dei principali trend di comportamento dei consumatori e delle evoluzioni tecnologiche e di mercato nei diversi settori industriali, oltre che nello scouting di startup di eccellenza.
Più recentemente abbiamo costituito Intesa Sanpaolo ForValue, nuova società del gruppo dedicata all’offerta di servizi non finanziari, che affianca le imprese nella fase di “messa a terra dell’innovazione”.
Nel settore del credito i Pir rappresentano la principale innovazione di quest’anno. Dai primi dati, quale impatto avranno sull’attività delle pmi?
Siamo stati tra i primi gruppi bancari a crederci lanciando tre fondi dedicati e questo ci sta premiando, tanto che a inizio 2017 abbiamo raccolto 1,4 miliardo di euro. Il modo di risparmiare degli italiani stava già cambiando e si muoveva da tempo in un’ottica di medio e lungo periodo. Intesa Sanpaolo l’ha assecondato offrendo sicurezza e serenità negli investimenti finanziari e rendimenti adeguati a costi sostenibili.
Con Piccola Industria Confindustria è in corso un’azione informativa affinché le ingenti risorse raccolte possano essere adeguatamente utilizzate dalle pmi impegnate in processi di crescita, innovazione e internazionalizzazione.
Oggi quali requisiti valuta come indispensabili in un’attività imprenditoriale prima di concedere un finanziamento?
Tradizionalmente la banca considera una serie di elementi, ricavabili dal bilancio, per valutare il livello di affidabilità di un’azienda e quindi la sua capacità di ottenere il credito.
Ciò è importante ma non è sufficiente perché si basa solo sulla storia dell’azienda, ma non ne coglie le prospettive, le capacità di affrontare il futuro, le potenzialità. Per questa ragione, anche su sollecitazione di Confindustria, è stata avviata una complessa e proficua ricerca di fattori non presenti nel bilancio, ma fondamentali per comprendere dove sta andando l’azienda e intuire come intende costruire il suo futuro. Questi fattori sono entrati a far parte del nuovo modello di rating corporate Intesa Sanpaolo, validato da Bce, e riguardano l’appartenenza a una filiera, la presenza di certificazioni di qualità e ambientali, il possesso di marchi e brevetti, la realizzazione di investimenti in ricerca e innovazione, la struttura manageriale e lo sviluppo del patrimonio umano, l’attenzione al passaggio generazionale, il rispetto della legalità.
Con l’accordo con Confindustria, Intesa Sanpaolo mette inoltre a disposizione il modello di valutazione delle startup. È un nuovo algoritmo, Dats (Due Diligence Assessment Tool Scorecard), già inserito nelle regole di concessione del credito, a supporto della valutazione creditizia delle startup e che prevediamo di estendere in futuro anche alle pmi innovative.
Si tratta del primo modello di valutazione “forward looking” adottato da una banca per i finanziamenti in debito, basato su logiche derivate dalla valutazione degli investitori in venture capital, mutuando le competenze costruite negli ultimi anni all’interno del Gruppo Intesa Sanpaolo. Questo strumento, “lungimirante” e profondamente innovativo e distintivo, consente alle imprese e alla banca di cogliere al meglio le opportunità offerte dalle misure governative e le agevolazioni per la crescita, estese dal Piano Industria 4.0.